Valorizzare l’italianità
Intervista a Maurizio Marinella, Amministratore E. Marinella
A cura di Chiara Lupi Sulla Riviera di Chiaia a Napoli, forse il più bel lungomare d’Italia, dal 1914 Marinella è simbolo di eleganza, raffinatezza, buon gusto. A quasi cento anni dalla nascita della bottega voluta da Don Eugenio Marinella, il nipote Maurizio, che fin da piccolo è stato chiamato a respirare l’atmosfera di un salotto più che di un negozio, ha saputo coniugare tradizione e innovazione facendo di Marinella un brand conosciuto in tutto il mondo. In questa intervista Maurizio Marinella ci racconta la storia dell’azienda. Che è anche la storia della sua vita. Marinella a Napoli è un simbolo e quel che l’azienda è oggi è il frutto di un’impostazione che Don Eugenio Marinella, suo nonno, ha saputo dare. Un progetto imprenditoriale porta sempre con sé un sogno, qual era quello di suo nonno? La nostra azienda è nata nel 1914, tra due anni celebriamo il centenario. Il sogno di mio nonno era aprire un angolo di Inghilterra a Napoli. A quei tempi l’uomo elegante si vestiva all’inglese così come la donna elegante si vestiva seguendo i canoni della moda francese. Questi i due punti di riferimento. Mio nonno andò in nave a Londra e iniziò a importare articoli che poi sono diventati famosi, pensiamo ai profumi, Floris di Penhaligon’s, gli impermeabili Aquascutum, ombrelli di Brigg e tanti altri marchi che abbiamo continuato a proporre ai nostri clienti fino alla seconda guerra mondiale quando furono introdotte le sanzioni e non potemmo più importare articoli dall’Inghilterra. È da quel momento che abbiamo iniziato ad avere articoli italiani. Terminata la guerra abbiamo potuto riproporre prodotti inglesi insieme con quelli di nostra produzione. Ci racconta qualcosa di lei, quando ha iniziato a occuparsi dell’attività di famiglia? Una premessa è doverosa: io sono stato messo al mondo per continuare questa attività. Ricordo una domenica – si andava sempre a colazione dal nonno – e mio nonno fece un cenno a mio padre che mi portò in un’altra stanza. Il nonno appoggiandomi la mano sulla spalla mi disse: “Maurizio adesso tu sei grande e da domani mattina scendi in negozio a lavorare”. Avevo otto anni. Ricordo i pianti, il dolore, la disperazione. Ho iniziato a odiare con tutte le mie forze il negozio. Non potevo parlare se non mi veniva rivolta la parola, non potevo dare la mano se non mi veniva data la mano, dovevo stare là solamente a ‘respirare l’atmosfera’. Immagini la sofferenza, i miei compagni andavano a giocare a pallone mentre io dovevo strare lì a respirare l’atmosfera. Poi, cosa succede? A 10-11 anni mi venne un’idea straordinaria, che mi fece un po’ aumentare la voglia di stare in negozio. Cominciai a fare le consegne nelle case della nobiltà napoletana e, celando il mio cognome, mi facevo dare la mancia. È stato così che ho cominciato a guadagnare i primi soldi. Da quel momento ho iniziato ad appassionarmi al lavoro, anche se il mio inserimento in azienda era difficile e complicato. Mio nonno e mio padre erano gelosi della loro attività. Quando venivano i rappresentanti da fuori cercavo di immaginarmi fantasie e accoppiamenti ma era difficile che riuscissi a esprimermi perché a me non veniva dato spazio. E questo spazio, come ha fatto a conquistarselo? Mio padre e mio nonno, davanti ai campionari di maglieria, sceglievano i colori blu, bordeaux, marrone e in momenti di massima euforia il verde. Io ricordo che a quattordici anni intervenni e chiesi che venissero ordinati pullover azzurri e gialli. Bene, questi furono i primi ad essere scelti dai nostri clienti. È così che mi sono ricavato spazio in negozio. Ma il momento che ha segnato il mio inserimento nell’attività è stato a 18 anni quando ho iniziato ad andare dai clienti che non riuscivano a venire a Napoli. Il primo cliente da cui sono andato è stato il vecchio commendatore Pietro Barilla a Parma, ricordo l’indirizzo: Commendatore Pietro Barilla, villa Barilla, viale Barilla, Parma. Aveva naturalmente una casa meravigliosa con un lago all’interno del parco. Intorno a quel lago scegliemmo le cravatte e alla fine, scusandosi per averne ordinate solo 70, mi omaggiò dei loro prodotti. Fu così che tornai a casa soddisfatto per l’ordine, ma soprattutto apprezzai la generosità del commendatore. Poi ho iniziato ad andare a casa di Giulio Andreotti e da altri personaggi che sono diventati con il tempo i nostri grandi testimonial. La vostra cravatta è diventata un simbolo… Più che una cravatta un ‘nodo d’autore’ per uomini di buon gusto che vogliono cravatte confezionate da mani esperte. Il libro delle firme custodito in negozio testimonia l’apprezzamento degli uomini più eleganti e famosi del mondo: regnanti, principi, capi di stato, politici, imprenditori e attori. Siamo fornitori ufficiali della casa reale inglese e apparteniamo all’Ordine della Giarrettiera, che viene conferito per alti servizi resi alla nazione. L’atmosfera che ha respirato in negozio fin da piccolo l’ha segnata, ha dato un’impronta particolare al suo modo di essere. È così? Non sento di essere cresciuto a Napoli. Io sono cresciuto proprio dentro al negozio. Poter uscire per andare nelle case dei nostri clienti significava ‘evadere’ in un certo senso dalle mura del negozio che a quei tempi mi stavano un po’ strette. Certo il negozio ha sempre fatto parte della mia vita e mi ha impegnato fin da quando ero piccolo. Un impegno che giustifica il fatto di aver protratto per molti anni gli studi per poter conseguire la laurea. Anche lo sport – ho giocato per otto anni a pallanuoto in serie A – mi ha ‘distratto’ un po’ dall’attività. Poi terminata l’università e conclusa l’esperienza sportiva il negozio rappresentava il mio naturale destino. Il vostro lavoro è fatto di prodotti eccellenti ma anche di un’eccellente abilità nel gestire le relazioni… Quando nascemmo nel 1914 Matilde Serao scrisse un articolo sul Mattino nella sua rubrica ‘Api mosconi e vespe’ che parlava degli eventi che succedevano a Napoli, e paragonò il nostro negozio a una farmacia di paese, un luogo di aggregazione dove si ritrovano il maresciallo dei carabinieri, il notaio, i notabili della città che ne reggevano le sorti. Ancora oggi lo spirito che ci muove è identico ad allora, per questo apro il negozio tutte le mattine alle 6.30. Noi viviamo due tipi di commercio completamente diversi: un commercio molto intimo con i clienti, che si fonda sull’aggregazione, per questo offriamo caffè, sfogliatelle, e in quel momento la vendita passa in secondo piano. Le persone vengono da noi e si rilassano, parliamo della città, della nostra vita. Poi durante la giornata il negozio prosegue con la sua normale attività. Noi apriremo sempre alle 6.30 perché questo è il momento più bello che io vivo con la città e con i miei clienti. Per garantire il successo del vostro business alla cura delle relazioni con i vostri clienti immagino affianchiate la cura delle persone che lavorano con voi. Certamente. L’attenzione per persone che lavorano con me è altrettanto forte. Abbiamo un laboratorio che si affaccia sul mare dove ogni giorno alle 13.30 arriva il cuoco e cucina per tutte le persone che lavorano con noi. E da noi si prepara una frittura di pesce fresco! Alle 15 poi arriva la pasticceria con i dolci. Le persone devono stare bene e sentirsi bene per poter dare il meglio. Immagino che anche la ricerca del personale non si semplice. Si parla tanto di gap tra le esigenze del mondo del lavoro e la disponibilità di professionalità. Rispetto a questo tema devo lanciare un grido di allarme. Siamo nella condizione di dovere assumere 10- 15 persone nei nostri laboratori ma non riusciamo a trovarle perché le nuove generazioni non vogliono dedicarsi a questi mestieri, preferiscono lavorare in un call center e rispondere al telefono. Questo è un peccato perché l’Italia, e soprattutto Napoli, è ricca di tante tradizioni artigianali e sartoriali, soprattutto familiari, che se non alimentate e supportate sono destinate a scomparire. Ed è un peccato perché rappresentano il nostro DNA . Più volte mi sono rivolto alle istituzioni affinché si dedicasse la doverosa attenzione a queste professioni, magari istituendo un’università dell’artigianato. Purtroppo non vengo preso in considerazione anche se creare a Napoli un’università degli antichi mestieri sarebbe un progetto ambizioso, potremmo dare tanto lavoro ai giovani e attrarre un turismo di qualità da tutte le parti del mondo. Come fate a scegliere le persone che lavorano con voi? Come si trasferisce l’attitudine alla cura? Le difficoltà sono enormi, attrarre le persone è difficile perché i giovani considerano degradante fare certi tipi di lavori. Tutti aspirano a diventare amministratori delegati… Quando una nostra persona se ne va arriva la figlia o la nipote. Oltre questo giro è difficile andare. Facciamo corsi per avvicinare ragazze alla professione, ma è difficile. Che caratteristiche deve avere il vostro candidato ideale? Chiediamo veramente poco: un minimo di manualità e un buon carattere. Non andiamo in cerca di curricula eccellenti ed esperienze lavorative, nonostante questo è veramente molto difficile trovare persone disponibili. Ora abbiamo assunto 4 persone, ma di solito si trovano sarte magari un po’ anziane. Trovare persone giovani sulle quali puntare è molto complicato. Un grande tema che riguarda le aziende famigliari è il passaggio generazionale. Suo nonno le imponeva di stare in negozio in silenzio. Oggi, come si fa? In questo momento le complessità di chi fa impresa sono riconducibili a diversi diversi aspetti. Il passaggio generazionale innanzitutto. Ho un figlio maschio che ha 17 anni e sta un po’ in negozio – non quanto sono stato obbligato io – e pare voglia continuare. Cercherò comunque di fargli fare anche esperienze all’estero prima di farlo entrare in azienda. Il secondo punto è Napoli. In quest’ultimo periodo ha trasmesso un’immagine di sé decisamente problematica. Quando l’emergenza spazzatura salta agli onori della cronaca, in due tre giorni viene azzerato tutto quello che di buono c’è: economia, turismo, agricoltura… tutto. Mi vien da dire che portare avanti un’azienda nel mondo è un’impresa difficilissima, farlo in Italia è molto complicato, farlo a Napoli è ai confini della realtà, è apocalittico. In questo momento il mio maggior nemico è rappresentato dalla città, che trasmette negatività. Ma noi siamo qui a dimostrare che un’altra Napoli esiste! Certo, è importante far sapere che esiste un’altra Napoli, una città che lavora e propone al mondo prodotti di qualità. Una Napoli che tutti i giorni si sveglia alle 5, perché noi apriamo alle 6.30 per fare accoglienza, per trasmettere il nostro modo positivo di vivere le relazioni, l’impresa, la vita. Ma far sopravvivere tutto questo è diventato molto complicato. Per contrastare la crisi dell’artigianato, di professioni che rischiano di scomparire sotto il peso della globalizzazione, lei cosa pensa di potrebbe fare? Voglio portare l’esempio di Capri, un luogo meraviglioso dove da tutti le parti del mondo si arrivava per vivere una situazione diversa. Fino a pochi anni fa si percorreva via Camerelle e si trovava l’artigiano che faceva in mezz’ora un pantalone, il sandalo in un’ora, il mocassino sfoderato, i profumi. E questo era Capri. Ora vai e trovi Hermès, Louis Vuitton, Gucci, Ferragamo, negozi straordinari, intendiamoci, ma uguali a se stessi in tutte le parti del mondo nelle strade più belle. Perché non immaginare una strada a Napoli o a Roma che possa raccogliere tutte le eccellenze che la città può proporre: sarti eccezionali, gastronomi, artigiani che forgiano statuette per i presepi. I turisti verrebbero da ogni parte del mondo per vivere una situazione nuova. E noi incrementeremmo il turismo e guadagneremmo credibilità mettendo in risalto le nostre eccellenze. Ma tutto questo presuppone una regia, un supporto anche istituzionale, altrimenti le eccellenze di oggi sono destinate a scomparire. In questa partita della valorizzazione dell’italianità ha deciso di mettersi in gioco in prima persona rifiutando di trasformare il vostro nome in un grande marchio. Una scelta difficile, che le fa grande onore. Ci vuole raccontare? Sei mesi fa ho rinunciato a 120 milioni di euro. Un gruppo indiano voleva comprarci ed io ho passato la settimana più difficile della mia vita. Rifiutare 120 milioni in questo momento, a Napoli, non è semplice. Oltretutto i consulenti, commercialisti, avvocati, tutti mi spingevano ad accettare: chiudi a 150 milioni, mi dicevano, peggiorando lo stato di incertezza nel quale mi trovavo. Alla fine ho deciso di rinunciare. Per Napoli, e in nome dell’affetto che sento per questa città, in nome della mia famiglia. C’è un legame forte che lega Marinella a Napoli e Napoli a Marinella. Certo, il vostro è un brand riconosciuto a livello mondiale… Quattro anni fa una società americana di ricerche di mercato fece un’indagine sulla città e a 3500 persone vennero poste 10 domande. Una di queste chiedeva qual era la prima persona che veniva in mente pensando a Napoli. Al primo posto è risultato Maradona, che anche se non era napoletano ha rappresentato per noi grandi successi. Al secondo posto è arrivato Totò, al terzo posto Marinella e al quarto posto San Gennaro. Al quinto posto Bassolino, che allora era ancora in auge, e al sesto posto Pino Daniele e poi massimo Troisi. Lei ha idea di cosa significa per un napoletano essere nella mente dei miei concittadini più di San Gennaro? Difficile dare un valore a questo. Certamente il valore economico passa in secondo pianoSarà l’esser più famosi di San Gennaro che vi dà la spinta per aprire il negozio tutte le mattine all’alba? Possiamo contare su una grande passione, è questa che ci muove. Stare in piedi dalle 6.30 alle 8 di sera tutti i giorni è pesantissimo, ma lo faccio ancora con grande entusiasmo. Sono le persone che tutti i giorni vengono nel nostro negozio a darmi la carica necessaria. Chi viene da fuori racconta che deve portare una cravatta agli amici, non importa di quale colore, l’importante è che sia di Marinella. Capisce cosa vuol dire questo per me? Sento una grande responsabilità verso la città e verso le persone che varcano la soglia di un negozio di 20 metri quadrati. Già, le dimensioni. Suo nonno voleva creare un angolo di Inghilterra a Napoli. E il negozio è rimasto lo stesso… Il negozio è un motivo di grande orgoglio per me. Riuscire a costruire tutto quanto abbiamo costruito in 20 metri quadrati a Napoli, a piazza Vittoria, è un grande miracolo. Fino a 5 anni fa eravamo il negozio che al mondo faceva più fatturato rispetto ai metri quadrati. Ora abbiamo aperto uno show room sopra di 90 metri e siamo crollati nella statistica. La nostra conversazione finisce qui. Maurizio Marinella, che ha partecipato al nostro convegno dedicato alle Risorse umane a Napoli, deve rientrare nel suo negozio. Che non si può definire tale. Quell’angolo di Inghilterra che Eugenio Marinella ha voluto ricreare a Napoli deve rappresentare per tutti noi un faro. Una dimostrazione che la passione per il lavoro, l’intraprendenza e l’amore per le persone rendono tutto possibile. Maurizio Marinella, forse senza pensarci troppo, ha creato la moda del caffè delle 6.30. Si alza prima dell’alba per condividere momenti intimi con chi si affaccia al suo negozio. Niente a che vedere con le mode di cui tutti noi siamo un po’ vittime, anni luce di distanza dai nostri ormai tristi happy hour milanesi, moda imposta che ci ha allontanato dai cocktail ben fatti e dalle prelibatezze che li dovrebbero accompagnare. Il nonno Eugenio diceva che è la somma dei piccoli particolari che fa l’uomo elegante. Noi diciamo oggi che la somma tanti piccoli gesti quotidiani, la tenacia e la determinazione di proseguire un’attività tra milioni di insidie permettono agli imprenditori di mantenere vive eccellenze di cui tutti noi dobbiamo essere orgogliosi. A persone come Maurizio Marinella tutti noi dovremmo dire grazie. E magari prendere esempio e alzarci qualche minuto prima tutte le mattine. Per cercare, ognuno nel nostro ambito, di far qualcosa di più, di nuovo, e di meglio. Se ne siamo capaci.brand, case history, Chiara Lupi, clienti, eccellenza, innovazione, intervista, Marinella, Maurizio Marinella, prodotto, Risorse umane e Organizzazione