Usa-Cina, sfida per la leadership: i rischi della strategia di Trump
Commentare su un periodico mensile (l’articolo è stato pubblicato sul numero di settembre di Sistemi&Impresa) le strategie di Donald Trump, non solo economiche, espone al serio rischio di fare brutta figura. Il Presidente americano è difatti incline a cambiare molto spesso posizione. Il suo stile di comunicazione fatto di tweet, inoltre, mette in difficoltà tanto i suoi collaboratori quanto chiunque si cimenti nella sfida di tratteggiare una strategia di lungo periodo dell’amministrazione Usa. Questo non vuol dire, però, che tale strategia non esista: se non una vera e propria strategia del Presidente, almeno una del suo staff. Trump rimane il Presidente di quella che, a tutt’oggi, è ancora la prima economia al mondo, le cui scelte impattano in modo rilevante anche sulla nostra economia e sulle nostre imprese.
In gioco c’è la leadership americana
La campagna elettorale di Trump si è articolata sullo slogan “America First”: prima gli interessi del Paese, dei cittadini e delle imprese americane. Uno slogan che ha avuto molto successo perché chiaro, diretto, affascinante e sufficientemente generico da incontrare il favore di molti. Le scelte del capo della Casa Bianca nell’ambito dell’economia, come della politica internazionale, hanno rivelato come “America First” non significhi però solo “prima gli americani”, ma anche “l’America prima”. Vi è innanzitutto il tentativo, cioè, di mantenere la leadership globale economica, politica e tecnologica del Paese. Chi più di altri attenta a questa leadership è la Cina, un Paese economicamente sempre più grande (anche se con debolezze interne non indifferenti) che desidera riprendersi quel posto nel mondo che aveva già occupato per migliaia di anni. I due progetti che simbolizzano il nuovo posizionamento della Cina sono, non a caso, “China Manufacturing 2025”, che intende fare del Paese il leader globale in numerosi settori produttivi, e la “Belt and Road Initiative” (BRI), che mira a costruire una rete di infrastrutture fisiche e immateriali che connettano la Cina con il resto dell’Asia, l’Europa, e anche l’Africa, facilitando le relazioni commerciali e creando, soprattutto, nuovi legami economici e politici. Una Cina, quindi, non più vista come la ‘fabbrica del mondo’ a basso costo ampiamente sfruttata da multinazionali americane e non, ma un competitor tecnologico in grado di colmare il divario a una velocità probabilmente maggiore di quanto le amministrazioni americane avessero previsto.Le contromosse degli Stati Uniti
La strategia di contenimento impostata dagli Stati Uniti si sviluppa su diversi assi. I dazi sono l’aspetto più immediato. Le prime misure hanno riguardato alluminio e acciaio e non si sono limitate alle sole produzioni cinesi. Ma il vero obiettivo rimane colpire la Cina. I dazi già attivi sui prodotti cinesi sono ancora relativamente pochi, ma quelli annunciati riguardano la quasi totalità delle esportazioni del Paese. Si tratta di dazi che vanno dal 10% al 25% a cui Pechino sta ovviamente rispondendo a sua volta imponendo dazi sulle esportazioni americane. Certo è che la Cina esporta verso gli Stati Uniti molto più di quanto importi (526 miliardi di dollari contro 155 miliardi) e, quindi, la sua capacità di compensazione è di fatto ridotta. Sono però moltissime le imprese americane che operano in Cina e che potrebbero incontrare difficoltà in conseguenza della guerra dei dazi. Altro limite alle strategie americane è dato dalla possibile reazione negativa dei consumatori che si trovano di fronte a un aumento dei prezzi di moltissimi beni di consumo a partire dai prodotti elettronici. Anche il mondo del private equity – e più in generale delle attività di M&A – dovrà rivedere le proprie strategie. Ad agosto 2018, il Congresso degli Stati Uniti ha promulgato non a caso il Foreign Investment Risk Review Modernization Act, una legge che nella sostanza amplia le competenze del Committee on Foreign Investment in the US (CFIUS) non più limitate alle sole acquisizioni straniere di tecnologie sensibili o di infrastrutture cruciali per il Paese, ma estese all’analisi dettagliata delle strutture proprietarie delle imprese per capire l’effettivo ruolo degli azionisti, anche di minoranza. Al di là degli aspetti tecnici, il segnale politico è chiaro. Secondo i dati di BDA Partners (advisory di investment banking che si concentra sull’Asia), dall’inizio della presidenza Trump gli investimenti di capitali cinesi nelle imprese high tech degli Stati Uniti si sono quasi dimezzati.Battaglia tecnologica tra Usa e Cina
Altro aspetto fondamentale della strategia di contenimento del fenomeno Cina è quello legato all’impiego delle tecnologie. Esso ha diverse sfaccettature. Da un lato, vi è la legittima richiesta americana di veder rispettati i propri diritti di proprietà intellettuale, questione sui cui la Cina in effetti offre ancora pochissime garanzie. Ma il tema del contenimento tecnologico va ben oltre. Le grandi reti telefoniche americane hanno subito fortissime pressioni affinché non offrissero più ai propri abbonati smartphone Huawei o ZTE. Le stesse compagnie telefoniche non possono utilizzare per le proprie infrastrutture tecnologiche gli impianti delle medesime marche come invece accade in Europa e nel resto del mondo. Inoltre, nei primi mesi del 2018, ZTE è stata sanzionata dal Governo degli Stati Uniti per aver venduto tecnologie all’Iran e alla Corea del Nord. L’iniziale presa di posizione di Trump era stata durissima, proibendo alle imprese americane di vendere tecnologie e componenti a ZTE per un periodo di sette anni e mettendo così in crisi la supply chain dell’impresa cinese. Successivamente il Presidente Usa ha deciso di sposare una linea più prudente, ma il Congresso ha comunque continuato a spingere per sanzioni aggressive. L’insieme di queste politiche sta creando sempre maggiori incertezze e questo, in genere, non è un buon segnale per la crescita economica. Ciononostante, il Governo americano cerca di trarne tutti i vantaggi possibili. Le grandi imprese globali si sono viste costrette a elaborare un ‘piano b’ che tenga conto dei nuovi equilibri, uno scenario che rappresenta senza dubbio un ‘second best’ rispetto al grande mercato globalizzato ma che è ormai ineludibile. Un ‘piano b’ che in alcuni casi deve prevedere più attività produttive negli Stati Uniti, se questo è un mercato importante, ma soprattutto rivedere le supply chain rendendole meno dipendenti dalle produzioni cinesi. Sono sempre di più le imprese che cercano fornitori alternativi ai produttori cinesi, non necessariamente più convenienti ma che possano essere attivati nel caso di una vera e propria escalation nella guerra dei dazi o nel caso le autorità americane decidessero di limitare l’accesso al mercato domestico di prodotti che contengono determinate tecnologie o componenti cinesi.Incognite sulle conseguenze a lungo termine
Alcuni analisti immaginano un mondo che si sposta dalle supply chain globali a supply chain regionali, una con al centro gli Stati Uniti e una con al centro la Cina. Si tratterebbe di un cambiamento epocale non privo di pesantissime ripercussioni economiche e politiche. L’Europa, oggi primo partner commerciale della Cina, si troverebbe davanti a una scelta molto difficile: rimanere legati al proprio alleato storico, gli Stati Uniti, o serrare i ranghi intorno alla nuova potenza emergente, la Cina. Gli Usa non sembrano particolarmente interessati a trovare nell’Europa una sponda per il contenimento cinese. Anzi, più volte Trump ha minacciato dazi contro le produzioni europee accusando in particolar modo la Germania di avere un surplus commerciale elevatissimo nel confronto degli Stati Uniti (50,5 miliardi di euro nel 2017). Forse l’atteggiamento di Trump, sempre al limite delle buone maniere, ha lo scopo principale di allineare gli interessi europei a quelli americani, ma l’esito finale di questa contrapposizione potrebbe essere molto diverso. A oggi la strategia aggressiva di Trump ha già avuto qualche successo. I dati economici americani di crescita e produzione sono molto buoni. È più difficile capire che cosa succederà però nel lungo periodo. Contenere la Cina è possibile. Pechino stesso si aspetta di dover affrontare maggiori difficoltà nel breve periodo a causa delle strategie americane, ma ciò non vuol dire che il Paese si fermerà. Il rischio è di trovarsi tra qualche anno con una Cina comunque forte, che avrà consolidato una propria supply chain su tecnologie proprietarie e per questo indipendente, nonché relazioni privilegiate con moltissimi Paesi, in un mondo che i dazi e altri vincoli politici e commerciali avranno reso semplicemente più costoso per tutti.Giorgio Prodi è Docente di Economia e Management presso l’Università di Ferrara e presso la Bologna Business School.
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