Persone nella fabbrica intelligente: dalla routine ai lavori più qualificati
Il tema del lavoro dentro la nuova fabbrica, in tutte le sue declinazioni –dall’inquadramento contrattuale alle necessità formative, dalle relazioni industriali alle conseguenze sociali dell’innovazione tecnologica su larga scala– ha progressivamente assunto un ruolo nella discussione sull’Industria 4.0.
Man mano che la cultura della trasformazione digitale si è andata affermando e si sono diffusi studi sugli effetti sociali dell’innovazione tecnologica, il dibattito pubblico si è polarizzato: da un lato chi vede soprattutto i problemi aperti dalla trasformazione, dall’altro chi ragiona intorno all’enorme fabbisogno di capitale umano –educato e spendibile– che le nuove tecnologie finiscono con il richiedere.
Intanto, anche le definizioni funzionali dell’Industria 4.0 sono divenute più numerose e sfaccettate, alternando chi mantiene fissa l’attenzione sulla tecnologia, chi su una versione digitale dell’innovazione organizzativa in ottica lean, chi sui business model e sulla nuova catena del valore. Ma oltre gli osservatori settoriali, tutti sono concordi sul fatto che la trasformazione digitale non possa essere affrontata con le mappe e le bussole del passato.
Come hanno scritto fra gli altri i sociologi Luigi Campagna, Luciano Pero e Anna Maria Ponzellini, gestire l’innovazione tecnologica centrando l’attenzione sui miglioramenti locali e la gestione ex post degli impatti sono modalità tipiche del Novecento, con una razionalità legata alle caratteristiche delle tecnologie dell’epoca (macchinari automatizzati che sommano fasi di lavoro in sequenza) e dei relativi sistemi organizzativi (stabili e strutturati, basati sulla codifica della mansione e la rigidità gerarchica).
Ma se i mercati attuali vanno nella direzione di un’alta capacità del sistema organizzativo di governare le tecnologie –riconfigurando rapidamente anche più automatiche– ne consegue che l’adattabilità e l’intelligenza del sistema produttivo si configurano come un ibrido persona-tecnologia, laddove la prima deve conoscere la seconda e questa deve imparare dell’uomo.
Del resto, visitare una fabbrica avviata al paradigma 4.0 produce una forte impressione, sia per l’interazione fra dimensione tecnica del plant produttivo e dimensione umana sia perché è visibile un cambiamento quasi antropologico del personale operativo sulle nuove macchine rispetto a quello impiegato ai macchinari tradizionali.
Per età, studi, approccio al lavoro, capacità di manipolazione del dato (in luogo della materia) e condivisione degli obiettivi dell’impresa, si colgono in reparti anche contigui tipi umani differenti; non a caso, il giusto mix e la fertilizzazione reciproca delle abilità sono il cruccio del management più avvertito. In definitiva, per condurre in porto la trasformazione 4.0, la Smart factory affronta il dilemma di sempre: il ruolo dell’uomo nel processo produttivo.
La fabbrica esperta, automatica e intelligente
Al ciclo di politiche promosso dal Piano Impresa 4.0 gli addetti ai lavori riconoscono di aver fornito un impulso al rinnovamento dell’obsoleto capitale tecnologico della manifattura italiana, consentendo al nucleo più dinamico di tenere il passo di un cambiamento planetario.
Il processo di adattamento tecnologico è stato avviato, ma ciò che i dati non possono dirci fino in fondo è la qualità degli investimenti effettuati: si può dire che in questi anni si sia prodotta una morfologia diversa della manifattura italiana, per esempio con un salto verso i nuovi modelli di business? Si sono trasformate le basitecnologiche dei processi? Si sono progettate nuove offerte, più competitive e qualificate? È veramente in corso un’evoluzione verso la fabbrica intelligente?
Nelle imprese italiane che si instradano al digitale, l’aspetto prevalente sembra in realtà la focalizzazione interna della trasformazione digitale, nel senso che quasi tutte vedono nella digitalizzazione la condizione necessaria per esplorare offerte e servizi di nuova concezione. Lungo la linea dell’innovazione, la loro fisionomia assume tre formati idealtipici: la fabbrica ‘esperta’, la fabbrica‘automatica’ e la fabbrica ‘intelligente’.
La fabbrica esperta funziona bene quando c’è bassa dinamicità e bassa complessità, ma quando l’azienda cresce e non è possibile che una sola persona controlli tutto, il processo di delega la trasforma in pochi anni in un’impresa completamente diversa.
La fabbrica automatica aiuta la gestione delle informazioni, ma non ancora la gestione delle persone, che invece è il dominio della fabbrica intelligente. I tre tipi ideali, insomma, sono definiti sulla base del ruolo svolto dalla conoscenza e della sua complementarità con l’architettura tecnologica.
La fabbrica esperta si basa sulle conoscenze tacite e sull’apprendimento per contaminazione; il suo funzionamento dipende dalle capacità incorporate negli agenti produttivi e risulta di conseguenza esposta al rischio di perdere know how (con il turnover), oltre a essere poco adatta a gestire la crescita accelerata, dal momento che l’esperienza non si ricrea altrettanto rapidamente.
Le nuove tecnologie consentono all’impresa di appropriarsi in parte di questa conoscenza esperta, assorbendola nel sistema informativo che la rende riproducibile: è la fabbrica automatica, che ha organizzato i suoi bacini informativi e può integrare le diverse parti in un tutto.
Cosa distingue dunque l’automazione dalla fabbrica intelligente? Non la disponibilità di informazioni, ma la gestione delle persone, nel senso che, una volta razionalizzata la produzione, uniformate le procedure e fluidificati i flussi che connettono ordinativi, magazzino e produzione, il passo ulteriore è creare nuove sinergie, usare le informazioni per aggiungere segmenti di valore, dunque saperi applicativi più formali e meno esperti, capaci di tradurre i dati in conoscenza e questa in nuove proposte.
L’articolo completo è stato pubblicato sul numero di Dicembre 2018 di Persone&Conoscenze.
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Annalisa Magone è Presidente del centro di ricerca Torino Nord Ovest.
Tra le pubblicazioni più recenti: Industria 4.0 (Guerini&Associati, 2016) e Il lavoro che serve (Guerini&Associati, 2018).
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