Open Innovation: un nuovo modello per competere
Crollano le gerarchie, si sviluppano nuove forme di conoscenza. Il cammino verso il prodotto del futuro è segnato dal libero scambio di idee
“We have to kill our children”. È l’invito aberrante che si legge mettendo piede in Intel. Uccidere i propri figli è un atto, odioso, spietato, immorale, immondo. Eppure dobbiamo farlo se vogliamo sopravvivere alle leggi del mercato. Le aziende sanno bene che innovare significa cambiare, stravolgere lo status quo, distruggere, ammazzare le creazioni di ieri per pensare con mente libera a quelle di domani.
Solo così si va avanti. Un imprenditore una volta disse che “non bisogna affezionarsi troppo al prodotto tanto da amarlo, ma bisogna amare l’impresa”.
L’innovazione non è generata dalla gerarchia o dall’ordine delle cose. È caos, è fortuna, è tempo, genialità, ma non solo. Le più importanti scoperte della scienza non sono mai avvenute a opera esclusiva di un singolo, ma dell’intera comunità scientifica. Quando nell’aria si respira qualcosa di nuovo, si percepisce che a breve succederà qualcosa. Che la scoperta avvenga a nome di Einstein, Galileo, Newton o Giordano Bruno, poco importa.
Essere curiosi è l’ingrediente basilare per innovare. Ma per innovare c’è bisogno anche di sovvertire il ‘senso comune’, spingersi fin dove mai nessuno ha creduto di poterlo fare.
Se questa è ‘innovazione’, che cosa significa fare ‘innovazione aperta’?
Per innovare in modo ‘aperto’ è necessario dimostrarsi curiosi – non solo nei confronti della propria realtà –ma verso ciò che accade ‘fuori’ dai confini dell’impresa. L’obiettivo è acquisire know-how e sviluppare idee e progetti vincenti.
Fare Innovazione Aperta significa uscire dal proprio guscio, attivando reti di collaborazione sempre più ampie e differenziate, capaci di coinvolgere nel rischio di impresa tutta la filiera produttiva – inclusi i fornitori – per conseguire insieme obiettivi importanti. Sono queste alcune chiavi del successo della Open Innovation.
Hanno pensiero strategico, godono dei benefici di un ampio network collaborativo con l’esterno, strutturano una gestione dedicata del processo innovativo e, infine, hanno ben chiara la valutazione dei benefici e dei vincoli.
Ma attenzione a non confondere quella della Open Innovation con una delle tante mode del momento in tema di innovazione, ricorda Ernesto Ciorra di Ars et Inventio. Poliedrico maestro di creatività e di innovazione, Ciorra si occupa esclusivamente dei temi dell’innovation da una decina di anni. Insegna in rinomate business school in Italia e in Ispagna, e ha fondato Ars et Inventio per dare metodo alla creatività e trasformarla in valore.
Il termine Open Innovation è stato coniato per la prima volta da Henry William Chesbrough, quando nel 2003 uscì un suo libro su questo tema. Anche per un guru come Chesbrough la OI è solo uno dei tanti modi che le aziende hanno a disposizione per fare innovazione. L’esempio di Apple è eclatante: “Il modello di innovazione di Steve Jobs – spiega Ciorra – non ha nulla di ‘aperto’. Aziende come Audi, Volkswagen, Porsche, Ferrero, non hanno mai voluto aprire il loro modello di innovazione, nonostante i loro prodotti abbiano un carattere molto innovativo”.
Se è vero che diverse realtà hanno la forza distruttiva di trasformare i mercati lanciando prodotti nati e cresciuti in casa grazie all’ingegno dei loro creatori, è anche vero che negli anni delle piattaforme social chiudere l’innovazione porta a un cortocircuito.
“Il proliferare del confronto digitale – dice Ciorra – è solo uno dei mezzi moderni per accelerare i processi di OI. Le piattaforme Social non fanno altro che riprodurre quello che già accadeva in piazza nell’antica Grecia. La democrazia e la libertà di parola favoriscono da sempre la crescita culturale di un Paese”.
Siamo alle solite: abbiamo bisogno di dare un nome nuovo a un concetto vecchio, ancestrale come il pensiero dell’uomo.
Quello dell’antica Grecia è solo uno dei tanti esempi di Open Innovation in ‘tempi non digitali’. La storia è ricca di Innovazione Aperta, come testimonia la Parigi dell’800 – in cui confluivano in un libero scambio di idee marxisti e nazionalisti –, la corte di Lorenzo il Magnifico, la New York degli anni ’60 con la Beat generation.
Lo strumento tecnologico abilita un processo di comunicazione e confronto su scala globale ma non produce di per sé innovazione. La piattaforma digitale ha potenzialità enormi, se pensiamo che grazie a Facebook, Linkedin, GooglePlus – & Company – oggi lo ‘smanettone’ della Silicon Valley si sente più vicino a un suo omologo di Mumbay che a un suo concittadino texano (miracoli del Web 2.0). Ma è anche vero che il suo utilizzo improprio (policy aziendali troppo restrittive, limitazioni nell’accesso ad alcune piattaforme, censura…) rischia di condurre in un vicolo cieco.
L’innovazione infatti trova terreno fertile laddove c’è cultura della libertà. “Se non si crea una gerarchia delle idee che oltrepassa quella delle persone – suggerisce Ciorra – lo strumento tecnologico si rivela un contenitore privo di contenuti”. E aggiunge: “Non esiste una vera ricetta per fare innovazione; le aziende che innovano hanno in comune la ricerca del sogno, della libertà e del coraggio”.