Per moltiplicare la produttività è necessario cambiare lo stile manageriale.E far emergere i talenti delle persone. Che devono fornire idee e progettiIntervista a Stefano Zamagni, Professore Ordinario di Economia Politica all’Università di Bologna e Adjunct Professor of International Economics alla Johns Hopkins University, Sais Europedi Dario Colombo
Fine della gerarchia. Diffusione della conoscenza. Attenzione alle persone e alle motivazioni intrinseche. Basterebbero questi ingredienti per condurre l’azienda al successo in questa fase di transizione (almeno per l’Italia) verso la quarta rivoluzione industriale. A spiegarlo è Stefano Zamagni, Professore Ordinario di Economia Politica all’Università di Bologna e Adjunct Professor of International Political Economy alla Johns Hopkins University, tra i primi a teorizzare la Social innovation come leva abilitante per rispondere alle nuove sfide di business delle Pmi. L’innovazione sociale nel nostro Paese non è ancora molto diffusa come in altre realtà dove di questo tema se ne parla fin dagli Anni 90: da noi il dibattito, collegato alle imprese anche profit, si è acceso con l’inizio del nuovo Millennio, “dopo che nel novembre 2011, la Commissione europea ha prodotto un documento con cui è stato chiarito che la Social innovation fa riferimento a qualsiasi organizzazione”.
Si parla tanto di innovazione, ma come si declina in ambito aziendale?
La parola innovazione è nata con la rivoluzione industriale, anche se il primo a teorizzarla fu all’inizio del 900 l’economista austriaco Joseph Schumpeter che nel suo saggio, La teoria dello sviluppo economico, distingue tra imprenditori “innovatori” e quelli “imitatori”: a suo giudizio, affinché un sistema economico possa svilupparsi, sono necessarie entrambe le categorie, perché se è vero che i primi creano innovazioni, è altrettanto vero che c’è bisogno degli imitatori per disseminarle. Ecco perché in ogni fase storica servono sia “innovatori” sia “imitatori”.
Oggi, però, con innovazione si fa riferimento a quella di processo e di prodotto…
Con l’andare del tempo anche l’innovazione si è andata arricchendo di nuove figure. Le innovazioni di processo e di prodotto, se valgono ad abbassare i costi e ad aumentare i ricavi, non modificano radicalmente la struttura produttiva. La svolta si è avuta con la terza rivoluzione industriale, con l’introduzione della “disruptive innovation” teorizzata da Clayton M. Christensen. Si tratta di un tipo di innovazione che sposta in avanti la frontiera delle conoscenze in ambito produttivo e immette sul mercato prodotti qualitativamente diversi dai precedenti: l’innovazione di prodotto, infatti, si limita a modificare parti marginali, ma, il prodotto resta sempre lo stesso.
Si pensi all’iPad: è un oggetto che fa qualcosa di diverso rispetto a tutto ciò che esisteva nel passato. È proprio questo tipo di innovazione quella oggi più richiesta per consentire a un Paese di competere sui mercati internazionali.
In che modo la disruptive innovation si lega alla Social innovation?
L’innovazione sociale è strettamente connessa alla disruptive innovation perché consente a quest’ultima di esplicare i suoi effetti. In pratica si tratta di cambiare il modo con cui si lavora dentro l’organizzazione, per modificare le relazioni all’interno dell’impresa stessa. Un esempio di innovazione sociale è il Toyotismo giapponese: l’idea alla base di questo metodo di organizzazione della produzione è l’abbattimento della gerarchia d’impresa. Se le precedenti organizzazioni – dal fordismo al taylorismo – avevano puntato sulla struttura piramidale con un capo che decide la strategia e trasmette gli ordini, nel Toyotismo la piramide è rovesciata e tutti – dai manager ai quadri fino agli operai – devono contribuire a fornire idee e progetti. Questo metodo ha aperto la strada a nuovi modelli organizzativi in cui l’innovazione prende corpo grazie al contributo di tutti.
Qual è l’effetto di questo modello organizzativo?
Quello di valorizzare la differenza tra motivazioni intrinseche e quelle estrinseche. Nella struttura gerarchica poco importa conoscere il sistema motivazionale di chi opera nell’azienda, perché la ‘piramide’ prevede un sistema di ordini imposti dall’alto verso il basso: chi sta alla catena di montaggio deve eseguire determinate operazioni e le sue motivazioni sono totalmente irrilevanti nei confronti della performance.
Ci spiega la differenza tra motivazioni estrinseche e intrinseche?
La motivazione estrinseca è quella di chi agisce in vista di un risultato utile, monetario o di altra natura. Un soggetto svolge una certa mansione perché è pagato bene e quindi è incentivato ad agire in un certo modo. La motivazione intrinseca, al contrario, è quella che muove all’azione perché l’attore è convinto della bontà stessa dell’azione e trae beneficio interiore dalla consapevolezza di agire per il bene. Il punto è proprio questo: le imprese di successo oggi sono quelle che riescono a esaltare le motivazioni intrinseche dei propri collaboratori e a ridimensionare il ruolo di chi ha motivazioni solo estrinseche.
Quindi gli incentivi non giovano all’organizzazione?
La natura propria dell’incentivo è quella del contratto: il principale paga l’agente per fargli fare ciò che quest’ultimo diversamente non farebbe. Tutti gli schemi di incentivo di struggono, tanto o poco, i rapporti di fiducia inflazionistici: il dipendente, con l’andar del tempo, tenderà a chiedere sempre più per conseguire determinati obiettivi, minacciando, in caso contrario, il proprio disimpegno. Non così con i premi che, al contrario, rafforzano la fiducia e la lealtà dei comportamenti. Il premio, infatti, non è un contratto, ma il riconoscimento di un’azione virtuosa.
Invece con l’innovazione sociale tutto questo si supera…
Con la Social innovation si cerca di distinguere gli uni dagli altri: l’obiettivo è cambiare l’organizzazione per esaltare il ruolo di coloro che hanno motivazioni intrinseche ed evitare che chi possiede motivazioni estrinseche possa “sottomettere” gli altri. Questo è il compito del management. Posso assicurare che si tratta di uno stile organizzativo che funziona, come testimoniano anche le mie esperienze in cui sono riuscito a far triplicare la produttività di un’organizzazione solo cambiando lo stile di pensiero: la presenza nei ruoli apicali di coloro con motivazioni estrinseche aveva creato un clima di sfiducia e di sospetto tale per cui chi aveva motivazioni intrinseche non riusciva a esprimere il proprio potenziale.
Quali sono i Paesi all’avanguardia per la Social innovation?
Per esempio negli Usa ci sono aziende che hanno introdotto la figura del Chief Happiness Officer, ossia il dirigente che si occupa della felicità dei collaboratori nell’organizzazione. Si tratta di una figura apicale proprio con il ruolo di trovare il modo per esaltare coloro che hanno motivazioni intrinseche, sostituendo il sistema dell’incentivo con quello dei premi.
Crede che il welfare aziendale sia un esempio di innovazione sociale?
Certo, perché attraverso il welfare aziendale, l’azienda fa capire ai suoi collaboratori che li considera non come robot che devono svolgere un compito, ma come persone che meritano rispetto. E il risultato è quello di avere dipendenti valorizzati che, come risposta, danno il loro meglio all’organizzazione. Di welfare aziendale se ne parla da una decina d’anni, ma in Italia Adriano Olivetti aveva anticipato tutti, capendo che per avanzare sul fronte delle innovazioni di rottura era necessario applicare Social innovation e nuovi modi per la gestione dei rapporti interpersonali.
Questo tipo d’innovazione si può applicare a ogni settore?
Certo, anche alla finanza. L’ultimo ‘figlio’ nato da questa corrente di pensiero, nonostante lo scetticismo di molti, è stata proprio la Social finance, come si evince da un recente volume pubblicato dalla Oxford University Press, dal titolo Social Finance. A scanso di equivoci, si tenga presente che l’innovazione sociale è tale non solamente rispetto al fine perseguito ma anche rispetto al modo di perseguirlo.
In che modo si può applicare la Social innovation alla Pmi?
Erroneamente si pensa che l’innovazione sociale sia applicabile solo alle grandi aziende, invece la Piccola e media impresa (Pmi) è favorita e questo può sembrare un paradosso. Perché le grandi imprese hanno strutture di potere consolidate e impostare un cambiamento è molto più complicato che per una Pmi. In tal senso, l’Italia, è il Paese ideale per la diffusione della Social innovation: conosco bene la realtà dell’Emilia-Romagna una regione dove le aziende hanno uno straordinario successo nell’export con un tasso di crescita superiore a quello della Germania. Il segreto? Sono aziende che mettono in pratica l’innovazione sociale.
Lo smart working può essere considerato un risultato dell’innovazione sociale?
La flessibilità dell’orario di lavoro supera quel sistema di controlli basato sulla timbratura del cartellino: un dipendente può anche arrivare in ufficio in orario e uscire all’ora prevista, ma il suo lavoro non ha senso se poi non mette a disposizione dell’organizzazione le sue idee. Ormai l’organizzazione del lavoro con i sistemi tayloristici è superata: nell’economia della conoscenza, il vantaggio sta proprio nella conoscenza, che si trova nella testa della gente, non solo quella che è in cima alla piramide gerarchica, perché anche l’ultimo arrivato può essere portatore di un’idea vincente. Che ruolo ha la tecnologia per la Social innovation? Le nuove tecnologie svolgono un ruolo di centrale importanza: si pensi al significato della quarta rivoluzione industriale (la cosiddetta Industry 4.0). Tuttavia, in assenza di innovazione sociale questo straordinario potenziale non potrà dare i frutti sperati, come il “great war management problem” chiaramente lascia intendere.