L’Italia non cresce da 30 anni: cosa fare?
Per capire che cosa fare per recuperare il degrado in cui è scivolata l’Italia, occorre innanzitutto farsi alcune domande per capire bene cosa è successo, il perché e come si può rimediare. Tra di esse non dovrebbero mancare le seguenti che riguardano: Prodotto interno lordo; costo del lavoro; salari; debito pubblico; turismo; scolarità e alfabetizzazione della popolazione; libertà di stampa.
Prodotto interno lordo
Come mai dal 1995 a oggi abbiamo perso 30 punti percentuali di Pil reale pro capite rispetto a Francia, Germania e Spagna? Come mai siamo l’unico Paese europeo a non avere aumentato il Pil dal 2008? Come è possibile che ci ritroviamo ora con un Pil inferiore di 2,2 volte rispetto a quello dell’Irlanda che 30 anni fa era un Paese di soli pastori e agricoltori? Come è possibile che ora siamo crollati al 43esimo posto mondiale in Pil reale pro-capite? (Dati: Fmi 2022).
Costo del lavoro
Se Francia e Germania sono riuscite ad aumentare il Pil con un costo del lavoro superiore del 30% rispetto al nostro (38 euro l’ora, contro i nostri 29 euro; dati: Ocse 2019), come mai noi continuiamo a dirci che abbiamo ‘il problema del costo del lavoro’?
Salari
Come mai l’Italia è l’unico Paese ad avere ridotto i salari dal 1990 (-2,9%), mentre tutti gli altri Paesi li hanno aumentati sostanziosamente? Paesi come Francia e Germania, che già avevano salari più alti dei nostri (la Germania già ben il 37% in più), li hanno visti crescere di più del 30% e la Svezia di ben il 63%!
Debito pubblico
Come è possibile che abbiamo un debito pubblico fra i più alti del mondo e contemporaneamente anche un risparmio privato che è il doppio di tale debito? C’è una qualche relazione tra le due situazioni? Paesi come Olanda e Germania sono molto sospettosi a riguardo: hanno qualche motivo per esserlo?
Turismo
Come mai negli ultimi 50 anni siamo passati dal primo al quinto posto mondiale in numero di presenze turistiche? Se è vero che ‘siamo il Paese più desiderato al mondo’, come mai ora Spagna e Francia hanno il 30% di presenze in più rispetto a noi? E come mai la Penisola Iberica, nel 2022, è riuscita ad avere un aumento del 220% contro il nostro 70%, di cui tanto ci vantiamo?
Scolarità e alfabetizzazione della popolazione
Come mai l’Italia è il Paese con meno laureati in Europa (specialmente nelle discipline economico-scientifiche)? Come mai gli italiani sono al penultimo posto su 180 Paesi (dati: Ocse) in alfabetizzazione funzionale? L’elevato analfabetismo funzionale degli Italiani può essere una delle cause della nostra incapacità di progredire come i Paesi concorrenti? Si consideri, infatti, che nel nostro Paese l’analfabetismo funzionale di livello 3 (cioè l’incapacità di capire le relazioni causa-effetto e di interpretare autonomamente dati grezzi) è pari a ben 48% (una persona su due!), mentre in Svezia, è solo il 7%.
Libertà di stampa
Come mai la nostra stampa – secondo i dati 2022 di Reporter sans Frontieres – si trova al 58esimo posto mondiale (al livello del Suriname) e ha perso ben 17 posizioni durante il periodo pandemico? C’è una qualche correlazione con l’elevato analfabetismo funzionale della nostra popolazione?
Un Piano di sviluppo nazionale per aumentare il Pil reale
Solo rispondendo a domande come quelle di cui sopra si può provare a impostare un piano di recupero della nostra produttività e quindi del nostro Pil e dei nostri salari. Occorre, però, farlo in modo molto pragmatico e non ideologico. Ma soprattutto – e questo è un grosso problema culturale da superare – non facendo semplicemente una lista di azioni di tutto ciò che si potrebbe fare a riguardo senza una logica di priorità e di relazioni causali. Con ciò intendo che il Piano dovrebbe prendere corpo partendo da chiari obiettivi e indicatori di risultato, ma anche ‘causali’. Per indicatori ‘causali’ intendo indicatori utili a monitorare i progressi sui fattori abilitanti dei risultati desiderati. Non ci si può ancora una volta affidare ai soliti piani basati su liste di innumerevoli azioni e investimenti “che dovrebbero consentire di ottenere i risultati voluti”. Non si fa così in economia e nel business: si decide a priori che tipo di risultati si vogliono ottenere (non in assoluto, perché è difficile, ma in termini relativi rispetto agli altri Paesi, cioè a parità quindi di contesto competitivo). Se ne fa poi un intelligente “deployment causale” da monitorare e gestire con adeguati indicatori (ripeto: ‘causali’ e non di risultati ex post, perchè l’andamento delle cause può essere gestito, i risultati no, in quanto i risultati sono per definizione “ciò che risulta alla fine”). Con ‘deployment causale’ (anche chiamato Policy deployment o Hoshin Kanri) nel business aziendale s’intende l’individuazione, la programmazione e la gestione di ciò che occorre fare in modo sequenziale per portare a casa un risultato. Dal punto di vista logico, come già detto, si tratta di partire dal risultato voluto, assoluto o relativo (per esempio: pareggiare il livello di presenze turistiche della Spagna in cinque anni) chiedendosi per cinque volte sequenziali: questo sarà successo se…?; questo sarà successo se…?; fino a definire la prima azione ‘causale’ (cioè la prima leva) di questo processo di miglioramento delle performance, che sarà subito attivata. Si può trattare di azioni, attività, progetti, livelli di performance; tutti però devono essere corredati di indicatori con i relativi target (livelli di performance o fatti che possano abilitare il passo o l’incremento successivo). Per quanto riguarda l’obiettivo prioritario di un Piano di sviluppo nazionale per l’Italia, non dovrebbero esserci dubbi: occorre aumentare velocemente il Pil reale. Per farlo occorrerà sicuramente prevedere il recupero delle evoluzioni dei modelli di business che ci siamo persi negli ultimi 30 anni, eliminandone gli errori e ristabilendo le linee evolutive vincenti. Ma occorre aggiungere qualcosa in più; quel qualcosa che ci possa non solo farci riallineare sui trend mondiali, ma anche recuperare la maggior parte possibile del gap accumulato.Imparare dagli errori del recente passato
Per quanto riguarda gli errori fatti e i ‘treni persi’ possiamo individuare alcuni momenti chiave della nostra storia recente (momenti in cui abbiamo visibilmente perso il treno rispetto all’andamento del pil degli altri Paesi). Possiamo individuare tali momenti nei seguenti anni: 1996, 2007, 2011, 2015-19 e 2019-22. L’abbandono dell’Italia (1996) Abbiamo lasciato che le multinazionali e le grandi aziende abbandonassero l’Italia, non siamo stati in grado di attirarne di nuove e ci siamo agganciati alle filiere industriali della Germania (purtroppo non in crescita come gli altri Paesi. Il cambio dei modelli di business (2007) Quando la Germania ha cominciato a reagire cambiando i suoi modelli di business non siamo stati in grado di seguirla e non siamo stati capaci di sviluppare nostri modelli di business autonomi sulla scia dei trend del momento (servizi e ‘servitizzazione’ dei prodotti). Le dimensioni medie delle aziende italiane non hanno aiutato nelle economie di scala necessarie per l’innovazione. Impreparati davanti all’esplosione dell’ecommerce (2011) Quando nel mondo e nei Paesi concorrenti dell’Italia c’è stata l’esplosione dell’ecommerce, supportata dalle evoluzioni delle tecnologie digitali, le nostre aziende non si sono fatte trovare pronte. Tali trend sono stati sfruttati in Italia da aziende di altri Paesi che hanno occupato importanti aree di business anche eliminando buona parte del business precedente basato sulle filiere commerciali (e cancellando molto di quello dei tradizionali dealers e del micro-retail). Imprese non pronte alla digitalizzazione (2015-2019) Quando il business ‘digitalizzato’ si è imposto in grandi volumi, non ha trovato le imprese e il sistema economico italiano pronto a sfruttarlo, lasciando così spazio ai concorrenti esteri. E dal 2019 la filiera dell’Automotive ha incominciato a impoverirsi ulteriormente per la conversione del settore all’auto elettrica. E comunque in quegli anni il sistema Italia non è stato in grado di aumentare i volumi produttivi e soprattutto non ha saputo sviluppare prodotti-servizi a maggior valore, subendo così la concorrenza dei Paesi emergenti e non aumentando così il valore prodotto pro-capite. L’enorme calo del Pil durante la pandemia (2019-2022) L’aggressivo approccio alla gestione pandemica da parte dell’Italia ha creato, nel 2020, un calo del Pil del 10% (calo superiore a quello degli altri Paesi). Esso è stato in parte recuperato per il 6-7% nel 2021 e per il 3,7% nel 2022 (ma, in questo caso, con un’inflazione del 9% che ha dato comunque un risultato di Pil reale negativo). La metà dell’aumento di questi due anni non è stato peraltro strutturale, perché dovuto all’iniezione straordinaria del superbonus edilizio. Nel 2020 abbiamo comunque perso circa 175 miliardi di euro non più recuperabili.Puntare sul Turismo, sull’Agrifood e su nuove catene del valore
Non ci resta ora che cercare di recuperare tali gap puntando sulle catene del valore a maggior potenziale, anche richiamando le multinazionali per aiutarci a sviluppare il nostro ecosistema, i nostri modelli di business e le nostre competenze. In aggiunta a ciò, dobbiamo sfruttare meglio il potenziale dei nostri vantaggi competitivi naturali, quali il Turismo e l’Agrifood. Non possiamo per esempio accettare di continuare ad avere il 30% in meno di presenze della Spagna e della Francia. Occorre un piano strategico di sviluppo turistico degno di tale nome. Nell’Agrifood occorre probabilmente sviluppare catene del valore che consentano di sfruttare fino in fondo il loro elevato potenziale (cioè fino alle attività commerciali ‘consumer’). Altrimenti continueremo a far usare il valore del Made in Italy ad altri. Occorre infine un importante intervento strategico sulla struttura del nostro sistema produttivo. Da una parte serve che le nostre aziende imparino a servitizzare i loro prodotti, eludendo il più possibile il transito della vendita come tali attraverso i big player dell’ecommerce. Dall’altra devono saper sfruttare nuove catene del valore per aumentare la loro capacità di innovazione e di sviluppo di nuove value proposition attraverso un aumento delle economie di scala, almeno in modo virtuale (per esempio adottando modelli di business ‘olonici’). Sarebbe a tal riguardo necessario re-indirizzare adeguatamente con queste nuove logiche i programmi e i finanziamenti del tipo Industria 4.0-digitalizzazione per evitare di disperderli in una sorta di ‘reddito di cittadinanza per le imprese’, come mi pare sia successo in passato.Giorgio Merli è Consulente di multinazionali e governi, Docente in università in Italia e all’estero, già Country Leader di IBM Business Consulting Services, CEO di PWCC, Senior VP di Efeso Consulting.
Debito pubblico, pil, Salari, Scolarizzazione, Turismo