La situazione dell’
Italia all’interno dell’Unione europea si trova a un punto abbastanza critico e controverso, soprattutto per via di una crescente ostilità nei confronti dell’Europa, alimentata anche da
comportamenti totalmente irrazionali da parte di alcuni dei partner europei. E le voci che alimentano l
’idea di uscire dall’Europa trovano inaspettata accoglienza anche presso alcuni ambienti finanziari.
Sistema bancario italiano tra i più vulnerabili
Il PIL italiano ha subito una contrazione del 7% a partire dal 2008 e la crescita italiana è senz’altro inferiore a quella dalla larga maggioranza dei partner europei. La previsione per il 2017, secondo la Commissione europea e il MEF, si assesta tra un
0,9% e 1%.
Il debito pubblico senza crescita diventa difficilmente sostenibile. A questo si deve aggiungere che il
quadro macroeconomico è radicalmente cambiato e la Banca centrale europea ha già avviato un’operazione di
graduale riduzione del quantitative easing, passando da una media di acquisti mensili di bond da 80 a 60 miliardi di euro, con la decisione assunta a dicembre 2016. Oggi, infatti,
la Bce risulta essere uno dei maggiori acquirenti di titoli di stato italiani sul mercato. In prospettiva, invece, non potremo contare sull’ombrello protettivo dell’istituto di credito con sede a Francoforte.
Il combinato disposto poi, delle
restrizioni in materia di vigilanza bancaria e il perdurare di condizioni di crescita debole hanno reso il
sistema bancario italiano più vulnerabile e bisognoso di capitali freschi. La creazione del fondo governativo a tutela del sistema bancario ha posto l’Italia nella condizione di dover soddisfare le richieste europee di un manovra correttiva che dovrà essere implementata entro il 2017.
Rischio aumento Iva e imposte
Il rischio concreto è
l’attivazione di clausole di salvaguardia che comportino l’incremento automatico dell’Iva e di altre imposte, contestuale a una severa riduzione della spesa. A proposito di quest’ultimo punto, i dati non mentono: l
’eccesso di debito creato – al netto della spesa per interessi – nel 2012 e 2013 è stato necessario per contribuire al Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria (European Financial Stability Facility, EFSF), utilizzato per i salvataggi bancari di Spagna, Germania e Irlanda. Ciò trova evidenza nel fatto che la
spesa delle amministrazioni pubbliche è cresciuta soltanto dello 0,6% in termini reali.
In questo quadro,
chi è favore dell’uscita dall’euro insiste nel sottolineare come la
produttività italiana abbia una correlazione molto stretta con il tasso di cambio. Un cambio più svalutato era associato – quando avevamo la lira – a una produttività maggiore. Molti sostengono che
i costi dell’uscita dall’euro non sarebbero così proibitivi rispetto ai costi della permanenza. In verità molte delle simulazioni che circolano in Rete e in varie pubblicazioni si basano spesso su un’assunzione un po’ eroica, ovvero che la svalutazione iniziale della valuta nel periodo immediatamente seguente l’uscita dall’euro, sarebbe pari al 30%. Tutto questo è evidentemente da dimostrare.
Come far diventare l’Italia meno ‘provinciale’
In verità, questo è uno dei tipici casi della vita nel quale i
costi sono certi e i guadagni incerti: forse sarebbe meglio non rischiare. Va da sé, infatti, che una
svalutazione della moneta comporterebbe una generale svalutazione di tutte le obbligazioni esistenti tra cittadini, così come il valore nominale del debito pubblico esistente. Un obiettivo più realistico, invece, dovrebbe riguardare la
realizzazione di piani di asset swap che rendano il nostro debito pubblico più sostenibile nel tempo, scambiando titoli del debito pubblico ‘onerosi’ con altri emessi a tassi di interesse più bassi.
Ma al tempo stesso,
un piano serio di risanamento della finanza pubblica per cercare di
far diventare il nostro Paese meno ‘provinciale’ e meno attaccato agli stereotipi del passato che vedevano e continuano a vedere nella sovranità monetaria una cura ai mali strutturali ai quali non si vuole dare un rimedio stabile.