L’affievolirsi della pericolosità del covid-19 è certamente un’ottima notizia, ma la nostra economia deve fare i conti con un’altra – non meno grave – minaccia:
l’aumento del prezzo dell’energia. Un incremento che ha molte somiglianze
con lo choc petrolifero del 1973, anche se l’attuale congiuntura presenta differenze che la rendono ancora più complessa.
Innanzitutto, 50 anni fa l’aumento dei prezzi del petrolio si riversò in maniera analoga in quasi tutti i Paesi industrializzati,
mentre oggi gli Stati europei che utilizzano maggiormente fonti rinnovabili e nucleare sono meno impattati dai rincari: le industrie di questi Paesi risentono meno dell’aumento del prezzo del gas e le loro politiche diventano automaticamente più competitive. Inoltre, le spinte inflazionistiche non derivano dalla sola crescita dei costi delle materie prime,
ma anche da bruschi aumenti della domanda. Questo fenomeno, in molti casi, ha colto impreparate numerose aziende che, nel frattempo, avevano rallentato i ritmi produttivi.
L’inflazione ‘da costi’ e ‘da domanda’
ha così messo in crisi il tessuto produttivo, il quale, se pure dotato di grande capacità reattiva,
ha bisogno in questo momento di sostegni che compensino le differenze con competitor internazionali, meno svantaggiati dagli elevati costi energetici e da discontinuità produttive. Ma le questioni da affrontare non finiscono qui e sono tutte strettamente correlate con le dinamiche inflattive.
La pandemia ha un impatto sulla gestione delle filiere. Scelte compiute anni fa si ripercuotono oggi sulle catene di approvvigionamento.
La delocalizzazione ha un prezzo.
Se nel passato la produzione a basso costo era conveniente, ora sono emersi fattori che mettono in crisi questo modello:
aumento dell’energia, e conseguentemente delle materie prime, costi di trasporto e difficoltà logistiche acuite dalla pandemia rendono più difficile il controllo delle filiere. Il problema è ancora più complesso e riguarda la capacità della filiera di seguire il ritmo del business.
Una tempesta perfetta: il business cresce, ma la catena di fornitura non viaggia allo stesso ritmo.
Difficile gestire la produzione e mantenere equilibrio nei prezzi. Una soluzione potrebbe essere quella di riconfigurare le Supply chain passando dal concetto di “catena” a quello di “stella”,
in modo da poter coinvolgere più attori in caso di disruption. Il presupposto è la capacità di creare filiere
interamente connesse e non lineari, in grado di reagire a situazioni che interrompono il normale flusso degli eventi. Oggi il nemico è il covid, ma abbiamo già sottolineato la potenza del
butterfly effect:
il terremoto in Giappone si ripercuote sulle aziende italiane che producono componentistica per auto.
C’è anche un altro fattore chiave:
le competenze. Chi le possiede deve condividerle all’interno dell’azienda. Per questo diventa importante garantire
che le skill essenziali rimangano nell’organizzazione: anche a questo serve il welfare.
L’articolo è l’editoriale del numero di Gennaio-Febbraio 2022 di Sistemi&Impresa.
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Chiara Lupi ha collaborato per un decennio con quotidiani e testate focalizzati sull’innovazione tecnologica e il governo digitale. Nel 2006 sceglie di diventare imprenditrice partecipando all’acquisizione della ESTE, casa editrice storica specializzata in edizioni dedicate all’organizzazione aziendale, che pubblica le riviste Sistemi&Impresa, Sviluppo&Organizzazione e Persone&Conoscenze. Dirige Sistemi&Impresa e pubblica dal 2008 su Persone&Conoscenze la rubrica che ha ispirato il libro uscito nel 2009 Dirigenti disperate e Ci vorrebbe una moglie pubblicato nel 2012.Le riflessioni sul lavoro femminile hanno trovato uno spazio digitale sul blog www.dirigentidisperate.it. Nel 2013 insieme con Gianfranco Rebora e Renato Boniardi ha pubblicato Leadership e organizzazione. Riflessioni tratte dalle esperienze di ‘altri’ manager.