L’articolo si occupa del tema dell’internazionalizzazione delle imprese familiari che operano in settori ad alta tecnologia. Studi noti in letteratura dimostrano come sussista una relazione negativa tra la proprietà familiare e l’internazionalizzazione delle attività d’impresa. Una ricerca recentemente condotta presso il Center for Young and Family Enterprise (CYFE) dell’Università degli studi di Bergamo mostra invece che, per i settori ad alta tecnologia, le imprese a conduzione familiare hanno una propensione all’internazionalizzazione più elevata rispetto alle omologhe imprese non familiari.
A cura di:
Lucio Cassia, Alfredo De Massis e Stefano Pedrini, Università degli Studi di Bergamo, Center for Young & Family Enterprise (CYFE)
Introduzione
Le imprese familiari sono la forma più comune di organizzazione aziendale e il loro ruolo cruciale nelle economie di tutto il mondo è ampiamente riconosciuto (La Porta et al 1999; Schulze e Gedajlovic 2010; Villalonga e Amit 2009).
Le caratteristiche distintive di questa tipologia di imprese hanno attirato un intenso interesse scientifico (vedi De Massis et al 2012 per una rassegna completa della letteratura sulle imprese familiari).
Una vasta letteratura empirica ha dimostrato che il coinvolgimento della famiglia nella proprietà e/o nella gestione dell’impresa influenza profondamente le strategie aziendali, comprese le modalità di finanziamento (ad esempio, Romano et al 2001.), l’innovazione (ad esempio, Cassia et al 2012; De Massis et al 2013) e la propensione all’internazionalizzazione.
Questo articolo pone il focus sull’internazionalizzazione, una strategia che va a ricercare maggiori profitti e minori costi sui mercati esteri (Alkhafaji 2003, p. 143).
Nonostante oggi l’internazionalizzazione sia ormai divenuta fondamentale per la sopravvivenza e la crescita delle imprese, l’internazionalizzazione declinata al caso specifico delle imprese familiari presenta criticità (Fernandez e Nieto 2005) soprattutto per le imprese familiari in fase di start up. La dimensione ridotta e un
track record limitato fanno sì che la gamma di competenze necessarie per perseguire una strategia di internazionalizzazione sia poco presente inducendo le stesse a limitare la fornitura di servizi e/o prodotti ai soli mercati nazionali (Davis e Harveston 2000, Graves e Thomas 2004; Okorafo 1999).
La strategia di internazionalizzazione è stata studiata dalla letteratura scientifica attraverso un vasto apporto di contributi sia teorici sia empirici. Tuttavia sinora è stata dedicata relativamente poca attenzione a esaminare questa strategia nel caso di imprese familiari (Davis e Harveston 2000; Gallo e García-Pont, 1996; Gallo e Sveen 1991; Okorafo, 1999). La grande maggioranza degli studi accademici che confrontano aziende a conduzione familiare e non familiare suggerisce che le imprese familiari hanno meno probabilità di perseguire una strategia di internazionalizzazione delle loro omologhe non familiari (per eccezioni si veda, ad esempio, Zahra 2003; Sciascia et al 2012). Queste ricerche hanno evidenziato una serie di ostacoli in cui le imprese familiari possono incorrere nel perseguire l’internazionalizzazione rispetto al caso delle imprese non familiari (per una survey sull’argomento, si veda Kontinen e Ojala 2010). Allo stesso tempo, altri studi hanno suggerito che alcune peculiarità delle imprese familiari possano essere fonte di vantaggi competitivi rispetto alle controparti non familiari (Gallo e Garcia-Pont 1996; Sciascia et al 2012; Svinth e Vinton 1993 ; Zahra 2003).
Nonostante siano trascorsi quasi vent’anni dai primi lavori sull’internazionalizzazione delle imprese familiari, gli studi sin qui pubblicati non hanno analizzato in modo approfondito alcuni aspetti di primaria importanza, quale il ruolo del settore in cui operano le imprese.
A nostro avviso, ciò costituisce una significativa lacuna della ricerca scientifica dal momento che le caratteristiche del settore possono avere un impatto significativo sulle strategie aziendali di internazionalizzazione.
Come ampiamente descritto nel seguito dell’articolo, ciò è particolarmente evidente per i settori ad alta tecnologia. È probabile, infatti, che le caratteristiche dell’industria hi-tech – e in particolare l’alto tasso di cambiamento e l’altissimo livello di know-how specifico – siano in grado di influenzare i vantaggi e gli svantaggi connessi all’internazionalizzazione delle imprese familiari rispetto alle imprese non familiari e perciò la propensione relativa delle prime a orientarsi verso l’estero.
Questo lavoro costituisce un primo tentativo di colmare questo gap della ricerca scientifica confrontando la strategia di internazionalizzazione delle imprese familiari con quella adottata dalle imprese non familiari in settori ad alta tecnologia. Il presente studio adotta un approccio esplorativo, particolarmente adatto quando si analizza un fenomeno come l’internazionalizzazione (von Krogh et al 2012).
Vi è, dapprima, una panoramica della letteratura corrente sul tema dell’internazionalizzazione delle imprese familiari e non familiari con l’obiettivo di identificare i vantaggi e gli svantaggi tipici di quelle familiari in relazione alle caratteristiche peculiari dei settori ad alta tecnologia. Vengono poi illustrati i principali risultati di una ricerca condotta attraverso l’analisi di casi di studio presso il Center of Young and family Enterprise (CYFE) dell’Università degli studi di Bergamo su imprese familiari italiane attive nell’industrie hi-tech. La struttura dell’articolo è la seguente. Il paragrafo successivo illustra i vantaggi e gli ostacoli principali identificati dalla letteratura con riferimento all’obiettivo di internazionalizzazione da parte delle imprese familiari. Il paragrafo seguente descrive il ruolo che noi riteniamo possano avere i settori ad alta tecnologia nello stemperare gli svantaggi e potenziare i vantaggi all’internazionalizzazione per le imprese familiari che operano in tali settori.
Di seguito vengono messi in evidenza i risultati di una ricerca recentemente condotta presso il Center for Young and Family Enterprise (CYFE) dell’Università di Bergamo su imprese familiari e non familiari hi-tech con sede in Italia.
L’articolo si chiude, infine, con l’esplicitazione dei principali limiti del lavoro con l’obiettivo che essi possano essere affrontati e superati da futuri approfondimenti di questo filone della ricerca scientifica.
Vantaggi e ostacoli delle imprese familiari all’internazionalizzazione
Tra i vantaggi e gli svantaggi che, secondo la letteratura, le imprese familiari potrebbero avere nel perseguire una strategia di internazionalizzazione rispetto a quelle non familiari, si considerano qui quelli che hanno maggiori probabilità di essere influenzati dalle caratteristiche specifiche dei settori hi-tech.
Per quanto riguarda gli svantaggi, ci concentriamo sull’avversione al rischio dei manager-proprietari di un’impresa familiare (Berrone et al 2010; Gómez-Mejía et al 2007), sulla loro difficoltà di coinvolgere management esterno alla famiglia (Hall e Nordqvist 2008, Zhang e Ma 2009) e sulla loro difficoltà di attrarre finanziamenti esterni (Steijvers e Voordeckers 2009; Wu et al 2007).
È stato osservato che i manager-proprietari di un’impresa familiare sono più avversi al rischio dei manager di un’impresa non familiare in quanto hanno molto più da perdere in caso di fallimento dell’impresa (Gomez- Mejia et al 2007). Dal momento che le strategie di internazionalizzazione comportano rischi elevati (Johanson e Vahlne 1977), la riluttanza del manager- proprietario ad assumere rischi tende a ostacolare l’internazionalizzazione delle imprese familiari (Casillas e Acedo 2005; Gallo e Sveen 1991).
La letteratura sulle imprese familiari concorda sul fatto che i manager-proprietari di solito siano riluttanti a coinvolgere nel management dirigenti esterni e che, comunque, abbiano numerose difficoltà nel farlo (Stewart e Hitt 2012). Infatti, da un lato, le imprese familiari evitano di coinvolgere persone esterne alla famiglia in quanto temono di perdere il controllo dell’impresa (Chittor e Das 2007); dall’altro, le imprese familiari possono risultare poco attraenti per i manager esterni in termini di percorsi di carriera, remunerazione e ambiente di lavoro (Chua et al 2009). Di conseguenza, le imprese familiari mettono tipicamente in campo minori competenze rispetto alle loro controparti non familiari soprattutto nelle decisioni di carattere strategico (visto che raramente assumono manager esterni responsabili della strategia proprio per il timore di perdere il controllo).
La mancanza di competenze (Graves e Thomas 2004, 2006) e di capacità di elaborazione rapida delle informazioni (ad esempio, Gomez-Mejia et al 2010) frena perciò le imprese familiari nel perseguire una strategia di internazionalizzazione. Infine, l’internazionalizzazione richiede maggiori finanziamenti esterni rispetto alla sola operatività sui mercati nazionali. Le imprese familiari mostrano una capacità inferiore di ottenere accesso al capitale di debito rispetto alle iniziative non familiari (Le Breton-Miller e Miller 2006; Steijvers e Voordeckers 2009).
Inoltre, la preoccupazione di perdere il controllo del business rende queste imprese meno inclini rispetto alle loro controparti non familiari a ricorrere al finanziamento azionario esterno (Wu et al 2007). Ottenere tale finanziamento implicherebbe diluire la partecipazione della famiglia e fornire agli investitori esterni il potere di influire sulle decisioni dell’impresa (Tosi e Gomez-Mejia 1989). In sintesi, l’accesso limitato alle risorse finanziarie esterne è un fattore limitante del processo di internazionalizzazione delle imprese familiari (Gallo e Sveen 1991; Thomas e Graves 2005).
Per quanto riguarda i vantaggi delle imprese familiari nel perseguire l’internazionalizzazione, studi precedenti hanno dimostrato che l’orientamento a lungo termine, l’impegno superiore nonchè la velocità nel processo decisionale di questa tipologia di aziende possono avere effetti benefici sull’internazionalizzazione dell’impresa (Gallo e Pont 1996; Sciascia et al 2012; Svinth e Vinton 1993; Zahra 2003). Nel seguito si considera solo quest’ultimo aspetto, in quanto, come vedremo, è prominente nei settori ad alta tecnologia.
Il ruolo delle specificità dei settori ad alta tecnologia
Secondo gli studiosi, i settori hi-tech sono ambienti ad alta velocità (McCarthy et al 2010) in cui la conoscenza gioca un ruolo fondamentale (Colombo e Rossi-Lamastra 2012). In ambienti ad alta velocità, i cambiamenti nella domanda, nei concorrenti, nelle tecnologie e nella regolamentazione sono rapidi, non lineari e in gran parte imprevedibili (Bourgeois e Eisenhardt 1988, p. 816).
Questi cambiamenti generano incertezza (nel senso di Knight 1921) ed essa rende impossibile specificare tutti i possibili scenari futuri (Eisenhardt e Martin 2000, p. 1111).
Allo stesso tempo, le informazioni disponibili per le imprese diventano rapidamente obsolete.
Per questi motivi, le aziende che operano in ambienti ad alta velocità devono, per sopravvivere e crescere, essere allo stesso tempo flessibili ed efficienti (Davis et al 2009). La flessibilità è fondamentale per adattarsi rapidamente ai cambiamenti ambientali imprevedibili (Weick 1993) e cogliere le opportunità nuove e inaspettate. D’altra parte, l’efficienza è necessaria per sfruttare rapidamente queste opportunità. Muovendo da queste premesse, è possibile che la natura ad alta velocità e ad alta intensità di conoscenza dei settori ad alta tecnologia possa mitigare gli inconvenienti di cui sopra nella strategia di internazionalizzazione delle imprese familiari, rendendo in tal modo il comportamento strategico di queste imprese più allineato a quello delle loro controparti non familiari.
Per quanto riguarda l’avversione al rischio, ci aspettiamo che i manager-proprietari delle imprese familiari che operano in settori ad alta tecnologia siano meno avversi al rischio di quelli che operano nei settori
low tech visto che hanno deciso di entrare in settori altamente incerti.
Inoltre, il lavoro quotidiano in un ambiente in rapida evoluzione ha probabilmente insegnato loro a gestire l’incertezza, quindi a moderare l’avversione al rischio che potrebbe ostacolare l’internazionalizzazione. In secondo luogo, è possibile che,
ceteris paribus, il processo di internazionalizzazione delle imprese familiari che operano in settori ad alta tecnologia sia meno ostacolato dai problemi di mancanza di competenze tipicamente associati alle imprese familiari rispetto a quelle che operano in altri settori.
Nei settori hi-tech, infatti, la necessità di disporre di manager e dipendenti altamente qualificati è assoluta (Finegold e Frenkel 2006). La base di conoscenze ampia che un’azienda deve avere per competere con successo sui mercati internazionali è improbabile che sia disponibile all’interno dei confini della famiglia: ciò implica che molte imprese familiari hi-tech assumono forza lavoro esterna alla famiglia sin dai primissimi stadi del loro ciclo di vita. Inoltre, le imprese familiari che operano in settori hi-tech spesso stabiliscono alleanze per ottenere l’accesso alla conoscenza esterna e alle attività complementari (Colombo et al 2006). L’apertura a contesti non familiari ha anche l’effetto di ridurre il timore dei manager-proprietari di perdere il controllo dell’impresa familiare, in ciò rendendo le imprese familiari più simili ai loro omologhi non familiari.
Per quanto riguarda i vincoli finanziari, il fatto di operare in un settore hi-tech può addirittura avvantaggiare le imprese familiari rispetto a quelle non familiari (Kontinen e Ojala 2011a, b). La letteratura ha, infatti, messo in evidenza che le imprese familiari possono contare sull’erogazione di fondi da parte di familiari e amici (Sirmon e Hitt 2003; Steier e Greenwood 2000, Chirico, Irlanda e Sirmon 2011) e ciò potrebbe essere di grande aiuto per iniziative imprenditoriali che operano in settori ad alta tecnologia, i quali di solito incontrano difficoltà ad attrarre finanziamenti esterni per i loro progetti innovativi (Carpenter e Peterson 2002).
In definitiva, la natura ad alto tasso di cambiamento e ad alta intensità di conoscenza dei settori ad alta tecnologia può rendere meno pesanti gli ostacoli che le imprese familiari tipicamente incontrano nel perseguire un percorso di internazionalizzazione.
Riteniamo, inoltre, che il vantaggio evidenziato in letteratura, vale a dire una maggiore rapidità decisionale, che le imprese familiari hanno nel perseguire l’internazionalizzazione potrebbe anche essere potenziato in contesti ad alta tecnologia. È infatti noto che la velocità nel processo decisionale è particolarmente importante in ambienti ad alta velocità (Bourgeois e Eisenhardt 1988) in quanto consente alle imprese di essere sia flessibili sia efficienti nel perseguire le loro strategie.
Gli argomenti riportati in questo paragrafo suggeriscono che il confronto riguardo alla capacità di internazionalizzazione delle imprese familiari e non familiari che operano in settori ad alta tecnologia può avere un esito diverso dal medesimo confronto attuato tra imprese che non operano in settori hi-tech. Non potendo perciò anticipare l’esito di tale confronto mediante l’ausilio della letteratura, lasciamo all’evidenza empirica il compito di aiutarci a comprendere se le imprese familiari siano o meno svantaggiate rispetto a quelle non familiari nel perseguire una strategia di internazionalizzazione.
Sintesi dei risultati dell’evidenza empirica
Il Center for Young & Family Enterprise (CYFE) dell’Università di Bergamo ha analizzato una serie di casi di studio su questo tema prendendo in considerazione imprese familiari e non familiari italiane operanti in settori hi-tech.
I risultati raggiunti da questa ricerca, che hanno fornito lo spunto per quest’articolo, sono assai interessanti e indicano che le imprese hi-tech a conduzione familiare esibiscono una maggiore probabilità di espandersi all’estero rispetto alle controparti non familiari. Si tratta di un risultato particolarmente intrigante in quanto in contrasto con la letteratura dominante in materia che, per tutti i motivi che abbiamo anticipato, suggerisce che le imprese familiari (ad esempio, Crick et al 2006 e Fernandez e Nieto 2006) tendono a internazionalizzarsi di meno di quelle non familiari.
Naturalmente, i nostri risultati non sono direttamente confrontabili con i risultati di questi lavori, dal momento che essi che non sono esplicitamente focalizzati sui settori ad alto contenuto di tecnologia.
Tuttavia, la nostra analisi sfida gli studiosi a prendere in considerazione il ruolo delle specificità settoriali nella tematica dell’internazionalizzazione delle imprese familiari, aprendo così la strada a ulteriori, e speriamo fruttuose, indagini. Il nostro studio presenta una serie di limiti che esplicitiamo nel seguito di modo che possano, nel prossimo futuro, contribuire ad aprire nuove strade di ricerca.
In primo luogo, il campione di imprese selezionato per la ricerca non è statisticamente significativo né le modalità dell’indagine sono state scientificamente rigorose. Si è trattato, come detto, di una serie (ancorché nutrita) di casi di studio esaminati per lo più con tecniche qualitative. In secondo luogo, in questo lavoro ci siamo concentrati sugli effetti che il coinvolgimento della famiglia nella proprietà ha sulla probabilità di entrare nei mercati esteri.
Tuttavia, dobbiamo anche incoraggiare gli studiosi a riferirsi a una concetto di internazionalizzazione più rigoroso, da un lato, e ampio, dall’altro (Arregle et al 2012). Sarebbe interessante esplorare gli effetti del coinvolgimento della famiglia in altre dimensioni che sono state considerate nella letteratura riguardante l’internazionalizzazione, come ad esempio la velocità di internazionalizzazione, le modalità per entrare nei mercati internazionali, la crescita delle vendite internazionali, le attività di importazione, gli investimenti diretti all’estero, le fusioni e le acquisizioni, le alleanze e le partnership strategiche.
Per consentire una più profonda comprensione dei processi di internazionalizzazione da parte delle imprese familiari in settori ad alta tecnologia, l’analisi futura dovrà concentrarsi su come e perché le imprese familiari si differenziano per strategia di internazionalizzazione.
In terzo luogo, il nostro campione è costituito da impre se hi-tech di piccole e medie dimensioni situate in Italia. Ciò solleva la questione se i nostri risultati possono essere traslabili alle grandi imprese e alle imprese situate in altri Paesi. A quest’ultimo riguardo se la scelta del contesto italiano costituisce un contributo interessante alla attuale letteratura empirica, nondimeno l’Italia possiede alcune specificità (come, ad esempio, l’alta propensione all’esportazione) che potrebbero ostacolare la generalizzazione dei nostri risultati per altri Paesi.
Nonostante i limiti rilevati, questo articolo ha il pregio di avere dirette implicazioni manageriali. I risultati del nostro studio suggeriscono, infatti, che le imprese familiari operanti nei settori ad alta tecnologia sono in grado di competere nell’arena globale. Non solo le grandi aziende, come Bonnier, Michelin e Samsung (Casillas, Acedo e Moreno 2007) possono fortemente ancorare il loro vantaggio competitivo a una strategia di internazionalizzazione, ma anche le imprese familiari hanno una possibilità concreta sui mercati internazionali.
Le famiglie che sono coinvolte in un business devono conoscere e riconoscere questa potenzialità e non sottovalutare l’internazionalizzazione come mezzo per garantire il vantaggio competitivo dell’impresa per le future generazioni.
Conclusioni
Questo lavoro contribuisce ad ampliare il filone della letteratura che si occupa dell’internazionalizzazione delle imprese familiari.
A partire dall’analisi di una serie di casi di imprese aventi sede in Italia, la ricerca condotta dal Center for Young & Family Enterprise (CYFE) dell’Università di Bergamo mette in luce che le imprese familiari operanti nei settori hi-tech hanno una maggiore probabilità di entrare nei mercati esteri rispetto alle imprese hitech non familiari. Agli studiosi di
family business questo lavoro offre numerosi spunti di riflessione.
In primo luogo, l’articolo migliora la nostra comprensione sui legami tra contesti industriali e internazionalizzazione mostrando come le specificità dei settori hi-tech intervengono a modellare i vantaggi e gli svantaggi che le imprese familiari incontrano nel perseguire l’internazionalizzazione rispetto a quelle non familiari.
In secondo luogo, il nostro studio si aggiunge al dibattito generale sulle differenze tra le imprese familiari e quelle non familiari (raggiungendo, peraltro, un risultato nuovo e piuttosto sorprendente).
In terzo luogo, il lavoro integra la letteratura sulle imprese familiari con gli studi sui settori hi-tech e l’imprenditorialità tecnologica. Così facendo, invita esplicitamente gli studiosi di
family business a oltrepassare i propri confini disciplinari e a trarre da altri campi del sapere in modo da arricchire gli studi sull’impresa familiare con nuove intuizioni (De Massis et al 2012; Litz et al 2012).
In quarto luogo, i risultati di questo lavoro mettono in evidenza la necessità di estendere la copertura geografica degli studi empirici (Kontinen e Ojala 2010) dal momento che ci pos- sono essere eterogeneità tra Paesi in termini di propensione verso l’internazionalizzazione.
Mentre i precedenti dati per le analisi dell’internazionalizzazione delle imprese familiari sono stati raccolti in Australia, Cina, Spagna e Stati Uniti, questo è il primo studio condotto sul territorio italiano. L’Italia è un contesto molto interessante da studiare in virtù della massiccia presenza di imprese familiari (Banca d’Italia 2004; Caselli e Di Giuli 2010, Goodman e Bamford 1989) e della grande importanza attribuita al nucleo familiare nella cultura italiana (Masino 2008; Cassia et al 2011).