Global Sourcing: Evoluzione e leve di governo – parte 1
Negli ultimi vent’anni le imprese hanno considerevolmente espanso l’ambito geografico delle proprie operations. Questo è particolarmente evidente nelle vendite, sempre più globali, e nella produzione dove molte aziende hanno delocalizzato le attività in altri paesi, spesso attratti dalla ricerca di minori costi del lavoro. Sempre recentemente, si è parlato di born-global companies per quelle aziende che sin dall’inizio svolgono le loro attività all’interno di differenti paesi e per le quali, quindi, la gestione dei processi a livello internazionale costituisce un elemento distintivo.
Questa evoluzione è stata possibile grazie a un’apertura delle economie verso gli scambi internazionali, a una certa uniformità nei gusti e nelle necessità dei clienti/consumatori e a un’infrastruttura logistica e informativa sempre più estesa. Questi e altri fattori hanno portato, negli ultimi decenni, a un incremento dell’import/export e degli investimenti diretti esteri polarizzati da e verso alcune regioni chiave.
A cura di:
Matteo Kalchschmidt e Ruggero Golini, Dipartimento di Ingegneria Gestionale – Università degli Studi di Bergamo
Il fenomeno della globalizzazione ha riguardato anche la gestione degli approvvigionamenti. A seguito di un’attenzione sempre maggiore alla Funzione Acquisti come business unit strategica all’interno dell’impresa, l’organizzazione di questa funzione si è fatta sempre più complessa e strutturata, con buyer sempre più professionalizzati e Direttori Acquisti che partecipano in maniera attiva alle decisioni strategiche dell’azienda. Il ruolo della Funzione Acquisti è evoluto quindi da quello di semplice gestore amministrativo degli approvvigionamento a quello di process owner di tutto quanto concerne la gestione dei fornitori. Alla ricerca dei migliori fornitori – non solo dal punto di vista del prezzo, ma anche dal punto di vista delle competenze, tecnologie e prestazioni di servizio – gli uffici acquisti si sono mossi verso un graduale incremento dell’internazionalizzazione della loro attività.
Il fenomeno della globalizzazione degli acquisti è spesso analizzato in modo congiunto alla globalizzazione della produzione e delle vendite. Le aziende, infatti, sembrano seguire un processo di internazionalizzazione progressivo di tutte le loro funzioni alla ricerca di nuovi vantaggi competitivi. Le imprese adottano, infatti, diverse configurazioni di Global Sourcing (quindi la gestione degli acquisti al di fuori dei confini nazionali) e Global Distribution (intesa come la vendita e distribuzione di prodotti fuori dai confini nazionali). L’analisi dei dati IMSS2 evidenzia come vi sia una maggioranza di imprese (65%) che ancora opera a livello prevalentemente locale e una piccola parte (6%) di aziende fortemente globalizzate. Quest’ultime sono anche aziende con network produttivi globalizzati. Le restanti aziende si suddividono in coloro che hanno o un livello elevato di global sourcing (10%) o di global distribution (19%). Sempre dalla ricerca IMSS emerge chiaramente che tale distribuzione non è costante nel tempo ma negli ultimi anni è aumentato il ricorso a Supply Chain sempre più estese geograficamente.
Naturalmente le aziende possono nel tempo cambiare la loro strategia di gestione degli acquisti. IKEA, ad esempio, nata negli anni ’40 si è inizialmente focalizzata sulla gestione degli approvvigionamenti a livello locale. Lo sviluppo del business (attraverso l’ingresso in nuovi mercati e la diversificazione su nuovi prodotti) ha portato a modificare le strategie di sourcing oltre che quelle aziendali, riassumibili in offrire prodotti di qualità a un prezzo contenuto. In particolare l’azienda a causa di problemi di capacità produttiva e di relazione con i suoi fornitori, i quali si dimostravano sempre meno collaborativi nell’abbassare i prezzi come richiesto dal loro cliente, ha iniziato a ricercare fornitori prima in Europa, partendo dall’Est, poi in Cina e Far East e, infine, negli Stati Uniti. La ricerca di fornitori in quest’ultima regione ha seguito l’apertura locale di nuovi punti vendita.
Un ultimo aspetto riguarda il fatto che il global sourcing non è un trend seguito in modo uniforme da tutte le imprese. Soprattutto negli ultimi anni, anche a fronte dell’accelerazione di certi processi dovuta alla crisi, si è assistito in alcuni settori al rallentamento dei processi di internazionalizzazione, fino ad arrivare all’inversione di questa tendenza. Spesso ci si riferisce col il termine back-sourcing al fenomeno per cui alcune imprese “abbandonano” i mercati di fornitura esteri (in primis Est Europa ma non solo) per ritornare a modelli di fornitura locale. Le motivazioni che possono portare a questo fenomeno sono differenti, anche se si possono di fatto riassumere in una perdita di convenienza economica degli approvvigionamenti esteri o nella difficoltà di gestione degli investimenti esteri. Casi celebri di multinazionali come Whirlpool che rinuncia alla Turchia per tornare nella fabbrica di Napoli o Polti che non procederà con un investimento produttivo in Cina (fonte Il Sole 24 Ore, Marzo 2009) sono chiari sintomi di un processo in continuo mutamento.
Le forme di global sourcing
La pratica del Global Sourcing può avvenire con modalità molto differenti. Innanzitutto possiamo distinguere tra la situazione in cui una impresa decide di delocalizzare una intera attività produttiva all’estero e quella in cui l’impresa acquista un prodotto o servizio da un fornitore straniero.
Nel primo caso si parla solitamente di off-shoring. Sono numerosi i casi negli ultimi anni di imprese che hanno ricorso a tale tipologia di investimento. Si pensi, ad esempio, a FIAT, o ad altri produttori automobilistici, che hanno delocalizzato parte della loro produzione nei paesi dell’Est Europa tramite investimenti in impianti produttivi in tali aree (talvolta mantenendo la proprietà esclusiva, altre volte in forme di joint venture).
Il World Investment Report, che studia tali flussi di investimenti produttivi tra i paesi, riporta un trend in forte crescita negli ultimi anni nonostante vi sia una forte correlazione con le ciclicità economiche che può portare talvolta a delle inversioni di tendenza. Particolarmente interessante è il fatto che ormai anche i flussi connessi ai servizi (ad esempio per lo sviluppo software) sono parte di questo processo di internazionalizzazione tanto da aver superato i flussi connessi ai settori manifatturieri e di processo. Nello scenario internazionale l’Europa è il continente che vede i maggiori flussi entranti e uscenti.
Nel caso, invece, di acquisto diretto da fornitore straniero, si parla di global sourcing in senso stretto per riferirsi all’approvvigionamento di materie prime, oppure di global outsourcing nel caso di acquisto di capacità produttiva.
Ovviamente la linea di confine tra questi due ambiti non è perfettamente demarcata e quindi li tratteremo in modo congiunto.
Da questo punto di vista, i dati WTO vedono l’Europa come uno dei principali esportatori (specialmente nei settori dei servizi, macchinari, trasporti, chimico) e importatori (soprattutto nel settore tessile). In particolare l’Italia si colloca come rilevante importatore a livello mondiale soprattutto da Germania (in crescita), Francia (stabile) e Cina (in crescita).
Particolare interesse ha suscitato negli ultimi anni il ruolo della Cina, sempre più affermatasi come “fabbrica del mondo” grazie alla grande disponibilità di spazi, manodopera a basso costo, un sistema politico-economico gradualmente più aperto agli scambi internazionali, ma anche alla capacità del suo sistema industriale di garantire una buona produttività. Si ricordino a tal proposito gli investimenti in Messico dei grandi produttori tessili americani che, a causa di problemi di produttività, hanno gradualmente spostato i loro investimenti proprio in Cina. Non a caso, gli interscambi di questo paese sono particolarmente forti con gli Stati Uniti, ma anche con Giappone ed Europa. Addirittura il valore di import/export della Cina (esclusi i flussi legati all’energia) è stato nel 2005 più di 50 volte il suo PIL, un valore quasi triplo delle regioni sviluppate (Giappone, USA, Europa).
Anche se questi fenomeni sembrano essere molto pervasivi, è tuttavia molto difficile capire quale delle diverse forme con cui si possono internazionalizzare le operations sia strategicamente la più adatta a una specifica impresa. All’interno dello stesso settore, infatti, si possono trovare aziende ugualmente profittevoli che mantengono il presidio sulla produzione privilegiando investimenti di off-shoring (si pensi ad esempio al caso di Sony che ha sviluppato e produce in-house il processore della Playstation 34), e altre che delegano la maggior parte delle attività produttive in global outsouring (come ad esempio Apple il cui iPod è di fatto un assemblato di componenti realizzato da altre aziende). La scelta di quale modello adottare dipende naturalmente dalle capacità e degli asset in grado di offrire un differenziale competitivo e dalla “scommessa” sulla loro importanza futura. Se nei primi anni del 2000 avere la produzione in-house sembrava non offrire particolari vantaggi oggi la situazione sembra essere cambiata a fronte di una forte rivalutazione del ruolo strategico del manufacturing.
Perché fare Global Sourcing?
Ripensiamo per un momento al caso IKEA prima accennato. L’impresa ha dapprima cercato fornitori in Est Europa per problemi con i suoi fornitori locali e cercandone altri a basso costo non troppo lontani. Successivamente sono stati selezionati anche fornitori nell’Europa più sviluppata soprattutto per i prodotti che richiedevano maggiore qualità e più rapidi tempi di risposta. Infine, per seguire lo sviluppo del mercato, nuovi fornitori sono stati ricercati nel Far East e negli Stati Uniti. Come in questo caso, le motivazioni che portano a globalizzare i propri approvvigionamenti sono spesso variegate. Principalmente queste sono riconducibili a tre fattori fondamentali: la ricerca di potenziali riduzioni di costo, la possibilità di conoscere e accedere a nuovi mercati e l’acceso a tecnologie o risorse non disponibili localmente.
Per quanto riguarda la riduzione dei costi, questa può dipendere da un minor costo della manodopera o delle materie prime, piuttosto che dalla possibilità di accedere a finanziamenti specifici, aggirare barriere doganali e ridurre i costi di trasporto quando i fornitori esteri sono in prossimità degli stabilimenti delocalizzati dell’impresa. La possibilità di conoscere e accedere a nuovi mercati riguarda ad esempio quelle imprese, tra cui molte italiane, che hanno preso contatti con la Cina innanzitutto ricercando nuovi fornitori e poi, sfruttando questa base di conoscenze, hanno iniziato a servire quel mercato.
Abbiamo poi i fattori legati all’accesso a risorse non disponibili localmente che possono essere sia risorse tangibili (materie prime, prodotti regionali) sia intangibili (competenze, vicinanza a centri logistici). Basti pensare a tutti i prodotti per i quali il “Made in” ha un valore elevato come molti prodotti del food, del design o della moda italiani: qualsiasi ristorante italiano di elevata qualità in giro per il mondo dovrà approvvigionarsi di prodotti dall’Italia.
Accanto agli obiettivi che inducono il ricorso al global sourcing, esistono poi diversi fattori che influenzano le aziende su come applicare tale strategia. Da un lato abbiamo fattori legati al paese in cui l’azienda opera, principalmente dipendenti dalla politica di interscambi con l’estero e dalla dotazione di infrastrutture. Vi sono poi fattori legati al settore industriale e al prodotto: la maggiore o minore modularità e complessità dei prodotti ha un impatto diretto sulla possibilità di acquistare componenti da fornitori esteri. Vi sono poi fattori legati alla singola impresa, le sue capacità e caratteristiche, oltre che la sua specifica cultura. Nonostante quello che ci si potrebbe aspettare, le aziende più piccole non sono sempre le meno globalizzate, anche se spesso hanno una minore disponibilità di capitali, risorse e competenze per operare efficacemente su scala globale. Tuttavia, le piccole e medie imprese sono talvolta in grado di creare relazioni molto solide e profittevoli con pochi fornitori (globali) accuratamente selezionati. Sempre dalla ricerca IMSS emerge come il 14% delle aziende medio-piccole (ossia con meno di 250 dipendenti) del campione studiato abbia una quota rilevante di acquisti gestiti a livello globale. Tale valore, se confrontato con il 20% delle aziende di maggiori dimensioni appartenenti allo stesso campione che ricorrono ad acquisti a livello internazionale, denota la non esclusione delle PMI dal fenomeno del global sourcing.
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