Parliamo di
dati: il nuovo petrolio, come li definisce
Albert Zammar nella copertina del numero di Ottobre di
Sistemi&Impresa; devono essere
sempre disponibili, per questo entriamo nell’
era della hyper availability. Siamo pronti? Serve una nuova filosofia di gestione e
protezione delle informazioni, ma c’è ancora molto da fare se l’80% delle aziende non dispone di piani per la
Disaster recovery.
Non ci sarebbe
Industria 4.0 senza Big data. Il modo di produrre è stato rivoluzionato
dall’IoT, dai dati che si generano con la sensorizzazione degli impianti.
Il ‘ciclone IoT’ ha cambiato un paradigma: dall’accumulo di dati storici sui quali si basavano le nostre decisioni, oggi grazie alla sensoristica distribuita
portiamo nel presente le informazioni del futuro. Stiamo passando da una società archivistica a una
dimensione oracolistica, spiega
Cosimo Accoto autore del libro
Il mondo dato.
Abbiamo meno necessità di controllare il presente mentre
dobbiamo gestire l’incertezza del futuro.
La
Predictive manteinance è un esempio di come
la tecnologia ci dia strumenti per anticipare il futuro. In questo scenario non cambia solo la modalità con la quale produciamo conoscenza, bensì come organizziamo, coordiniamo e
gestiamo tutto il mondo del lavoro.
Siamo passati
dalla fabbrica all’ecosistema e all’interno di un contesto più complesso il lavoro si trasforma:
la mansione, con la sua rigidità,
ha lasciato spazio al ruolo, un copione nelle mani di un lavoratore che ha la responsabilità di interpretarlo. Servono competenze, ma serve anche
ripensare tutto
l’impianto normativo e fiscale, serve una regia che coinvolga più attori.
Siamo consapevoli della
portata di questa disruption? Da una ricerca condotta da Accenture emerge che il
livello di conoscenza teorica di
Industria 4.0 è alto, ma solo il 50-60% realizza attività concrete e solo il 10% del campione comprende tutte le funzioni aziendali in una trasformazione digitale.
Le imprese devono essere aiutate a scaricare a terra il loro potenziale, in sintesi.
Servirebbe un progetto di
gestione del cambiamento che coinvolga strutture e processi, non solo da un punto di vista tecnico. Serve un
cambio di mentalità perché, come ha ben sottolineato
Michele Armenise di Brand id, la digitalizzazione va di pari passo con la
trasformazione dei modelli di lavoro.
Serve una strategia perché, come ci spiegano
Matteo Marusi e
Patrick Beriotto di
Warrant Hub, la
trasformazione digitale tocca l’intera creazione del valore dell’impresa e, se ben condotta, può aiutare a recuperare efficienza, conquistare nuovi mercati, aumentare i margini.
Qui la
politica degli incentivi non deve fuorviare: non occorrono interventi spot, ma una
regia per orchestrare un processo di trasformazione digitale. E occorre maturare consapevolezza delle potenzialità: un esempio è
la Blockchain, bisogna comprenderne l’ecosistema di business e capire gli effetti che potrebbe generare.
Il percorso verso la trasformazione da azienda a ecosistema lo stanno portando avanti con grande determinazione anche PMI eccellenti come
Vallespluga ed
Evoca Group. E i risultati si vedono.
Chiara Lupi ha collaborato per un decennio con quotidiani e testate focalizzati sull’innovazione tecnologica e il governo digitale. Nel 2006 sceglie di diventare imprenditrice partecipando all’acquisizione della ESTE, casa editrice storica specializzata in edizioni dedicate all’organizzazione aziendale, che pubblica le riviste Sistemi&Impresa, Sviluppo&Organizzazione e Persone&Conoscenze. Dirige Sistemi&Impresa e pubblica dal 2008 su Persone&Conoscenze la rubrica che ha ispirato il libro uscito nel 2009 Dirigenti disperate e Ci vorrebbe una moglie pubblicato nel 2012.Le riflessioni sul lavoro femminile hanno trovato uno spazio digitale sul blog www.dirigentidisperate.it. Nel 2013 insieme con Gianfranco Rebora e Renato Boniardi ha pubblicato Leadership e organizzazione. Riflessioni tratte dalle esperienze di ‘altri’ manager.