Commercio mondiale, scontro protezionismo-liberismo
L’elezione di Donald Trump alla presidenza Usa ha disvelato il cumulo di ignoranza e di ideologizzazione del dibattito in merito al dilemma tra protezionismo e liberismo per quel che riguarda il commercio internazionale. Sale il rumore della stupidità con un fragore assordante: sono 20 e più anni che nel mondo non si firma un trattato multilaterale di commercio internazionale e da circa un decennio siamo sprofondati negli accordi bilaterali. Nessuno se ne era accorto e ora ci si strappa le vesti. Ma di che cosa? Guardiamo a ciò che è accaduto poco prima della elezione del successore di Barack Obama per quel che concerne il commercio estero con l’Europa. Lo ricordo per esemplificare un discorso teorico che so che non sarebbe seguito. Ricorriamo agli esempi.
Ceta, storia di un accordo a ostacoli
Domenica 30 ottobre 2016 si è firmato l’accordo di libero scambio tra Unione europea e Canada, il cosiddetto Ceta, che permette all’Ue di entrare nel mercato unico nordamericano istituito attraverso gli accordi Nafta tra Canada, Stati Uniti e Messico. Ma il tutto è avvenuto attraverso un susseguirsi di avvenimenti a dir poco singolari. L’accordo raggiunto permette a Bruxelles di avere uno strumento negoziale di riferimento che sarà fondamentale nei nuovi processi negoziali del Ttip, l’accordo per il libero scambio e gli investimenti in fase di discussione con gli Usa. Il trattato, per entrare effettivamente in vigore, ha bisogno della ratifica dei Parlamenti nazionali dei Paesi dell’Ue. Solo allora potrà essere davvero vincolante: non pare tuttavia che ci saranno sorprese nei vari iter parlamentari, anche se il loro completamento richiederà tempo. È stato quindi deciso che, in attesa di tutti i via libera, il Ceta possa entrare in vigore in via provvisoria, dopo che i Ministri Ue avranno dato il loro assenso e dopo che lo avrà dato anche il voto plenario del Parlamento europeo. Il Ceta sembrava non doversi più firmare per il voto contrario della Vallonia, uno degli Stati federali del Belgio: oltre alle preoccupazioni per l’impatto sul modello agricolo della regione e per i diritti dei lavoratori, il sistema sanitario e le norme a protezione dei consumatori e dell’ambiente, il principale ostacolo risiedeva sul sistema di arbitrato previsto dal trattato in caso di controversie commerciali. La Vallonia si opponeva all’idea di farle gestire da tribunali privati internazionali e non dagli Stati: ora ha ottenuto che le dispute siano sottoposte a una giurisdizione interamente pubblica e che vi sarà la possibilità di procedere a una valutazione degli impatti socio-economici e ambientali. Si tratta quindi di un’applicazione provvisoria del Ceta, con la conseguenza che la Corte di Giustizia dell’Ue si pronunci sulla compatibilità dell’accordo attraverso l’azione di una delle tre sezioni della Corte stessa, ossia il Tribunale, che giudica sui ricorsi per annullamento presentati da privati cittadini, imprese e, in taluni casi, Governi di Paesi dell’Ue. In pratica, ciò significa che questa sezione – che si occupa principalmente di diritto della concorrenza, aiuti di Stato, commercio, agricoltura e marchi – potrà essere coinvolta in una procedura di approvazione o meno del Ceta. Infatti erano i problemi delle controversie tra imprese a determinare le opposizioni più decise: quella dedicata alle controversie commerciali era la parte più controversa del trattato. Essa riguarda gli Investor-State dispute settlement (Isds), clausole per la ‘Risoluzione delle controversie tra investitore e Stato’. Si tratta di alcune clausole che consentono di fare causa a uno Stato davanti a un arbitrato internazionale nel caso in cui un investitore ritenga di essere stato ingiustamente danneggiato. L’idea alla base degli Isds è che i tribunali statali non sempre siano il luogo migliore in cui si possono tutelare gli interessi di un’impresa straniera. Si pensa, seguendo una lunga tradizione del diritto commerciale internazionale, che si possa creare un clima più attraente per gli investimenti consentendo alle imprese straniere di accedere a un ‘tribunale internazionale’ per proteggersi da eventuali decisioni scorrette da parte del Paese estero dove operano. Per risolvere queste controversie, il Ceta stabilisce la creazione di un tribunale permanente, con giudici scelti da Canada e Ue, tra i quali saranno sorteggiati quelli che si occuperanno dei singoli casi. Si tratta di un evento storico e di grande importanza per quel che concerne il diritto europeo nella sua interezza. Vale la pena ricordare un precedente. Martedì 5 luglio 2016, il Ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda aveva pronunciato una dichiarazione di cui nessun organo di stampa europeo, però, aveva dato notizia: in essa si sottolineava la decisione – senza precedenti – della Commissione europea, assunta nonostante non vi fosse unità di punti di vista, di qualificare il Ceta come “accordo misto” e pertanto di sottoporlo alla ratifica delle assemblee parlamentari degli Stati Membri e questo perché, nel barocco linguaggio giuridico eurocratico, un accordo ‘a carattere misto’ ricade sotto la competenza non esclusiva della Ue, ma concorrente con gli Stati membri. Inoltre, si dichiarava che tale decisione rappresentava un ulteriore danno alla costruzione europea e un decisivo passo verso lo stallo della politica commerciale dell’Ue. L’Italia si era detta pronta ad appoggiare un processo di approvazione europeo che avrebbe dovuto prevedere il voto favorevole del Consiglio e del Parlamento europeo. Un processo previsto dai trattati. Le assemblee parlamentari nazionali sarebbero state – anche in questo caso – pienamente legittimate a dibattere i contenuti del Ceta prima della decisione del Consiglio e a dare indicazioni ai Governi circa la posizione da tenere in quella sede.Bruxelles perde credibilità come partner
L’accordo con il Canada è il migliore mai siglato dall’Ue e contiene tra l’altro il riconoscimento delle più importanti DOP e IGP italiane e un ampio accesso al mercato degli appalti pubblici e dei servizi; entrambi obiettivi non ancora raggiunti nel negoziato con gli Usa. Il processo di ratifica dell’accordo potrà, però, durare anni e basterà il voto negativo di una assemblea parlamentare nazionale per farlo cadere. C’è da domandarsi come l’Europa potrà ancora essere considerata un partner negoziale credibile. Ed è davvero un segnale non previsto che la Commissione abbia ceduto alle pressioni degli Stati membri rinunciando alle proprie prerogative e affermando, nello stesso momento, che la natura giuridica dell’accordo è ‘Eu only’, ma che non si ha la forza di presentarlo come tale agli stati membri. Infatti, questa interpretazione era prevalsa anche prima del caso della Vallonia. Questa è la realtà: ai valloni è stata alzata una palla che essi, travolti dalle loro logiche di lotta tra partiti etno-nazionalisti, hanno immediatamente afferrato e usato a loro comodo, come dimostra il passo indietro e l’approvazione raggiunta in sede di Parlamento belga dopo le pressioni internazionali che non sono mancate. La decisione vallone è stata un episodio della guerra per procura contro il Ceta combattuta su ordine franco-tedesco con una sorta di ipocrisia e di irresponsabilità senza fine. Nessuno, del resto, ha ricordato che, ben prima del gesto vallone, l’antemurale della difesa giuridica tedesca aveva alzato a zero le sue Berte cannoneggiando tutte le più importanti clausole del Ceta affermando che essa (udite udite) poteva essere approvata… fermo restando l’esame parlamentare del Bundestang dei famigerati problemi ricordati. Ecco: la Corte costituzionale tedesca era stata chiamata a pronunciarsi sulla conformità del trattato ai principi costituzionali tedeschi e aveva affermato che la Germania avrebbe potuto dare il consenso al trattato riservandosi il diritto di uscire. Giochi di specchi e… menzogne. Ma gli specchi stanno sgretolandosi per autodistruzione. Il Consiglio ha approvato l’applicazione provvisoria del Ceta, ma escluso il capitolo sulla protezione degli investimenti sul quale proseguirà la discussione, essendo stata sollevata dal Belgio dinanzi alla Corte di Giustizia europa la questione della legittimità del meccanismo di protezione degli investimenti previsto nel Ceta. Del resto sono proliferate in questi ultimi anni campagne di stampa e di opinione contro il sistema della protezione degli investimenti internazionali con un sistema di arbitrato internazionale, ritenendo che sia iniquo e che favorisca le lobby di potere: tutto il male possibile sarebbe concentrato in questo meccanismo di risoluzione delle controversie. Politicamente e storicamente, in verità, la ragione risiede nel fatto che il sistema della protezione degli investimenti internazionali con un arbitrato internazionale tra Stati e investitori ha iniziato a essere applicato negli Anni 80 nel contesto di una economia mondiale in cui il punto saliente di attenzione era costituito dal regime giuridico con cui ‘rivestire’ gli investimenti dei Paesi economicamente ‘avanzati’ nei Paesi in via di sviluppo dove erano più di oggi prevalenti poteri situazionali di fatto rivestiti sì giuridicamente, ma che non eliminavano affatto i sistemi cleptocratici e giudici corrotti e inaffidabili. Le controversie tipiche erano di investitori occidentali contro governi africani o dell’America Latina per nazionalizzazioni o misure espropriative. Attualmente, per il cambiamento economico e politico occorso nell’ultimo ventennio, il sistema di protezione degli investimenti internazionali si sviluppa in merito a contenziosi tra investitori stranieri e Stati europei o addirittura intraeuropei. Questi mi pare sia più che sufficiente per indurre a tacere sulla questione protezionismo-liberismo nel commercio mondiale se non si dispone della teoria e delle informazioni elementari al riguardo.Giulio Sapelli è laureato in storia economica, ha svolto attività di ricerca presso la London School of Economics and Political Science nel 1992-1993 e nel 1995-1996, e presso l’Università Autonoma di Barcellona nel 1988-1989 e l’Università di Buenos Aires. Ha lavorato in Olivetti ed Eni. Al 2015 è professore ordinario di Storia economica presso l’Università degli Studi di Milano, dove insegna anche Economia politica e Analisi Culturale dei Processi Organizzativi. È collaboratore del Corriere della Sera e de Il Sussidiario.net.
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