Combattere la contraffazione in chiave di sostenibilità
Oggigiorno, il mercato del contraffatto è un problema serio che costa all’Italia miliardi di euro ogni anno. La contraffazione è un gigantesco cefalopode somigliante a una piovra o calamaro, con tentacoli abbastanza grandi e lunghi da avvolgere diversi settori apparentemente lontani. L’ingegno umano spazia dalle vette dell’innovazione tecnologica alle profondità dell’arte e il confine tra creazione e imitazione diventa sempre più sfumato. “Se lo puoi realizzare, lo puoi contraffare” è una riflessione sulla doppia lama del progresso: per ogni capolavoro genuino, esiste un’ombra, un duplicato che sfida l’originalità. Una frase che cattura l’essenza di un’era in cui l’autenticità è tanto preziosa quanto vulnerabile, lo specchio di un mercato in cui ogni nuova invenzione scatena una corsa folle a chi lo copia meglio.
Quando si pensa al contraffatto, con molta probabilità la prima cosa che viene in mente è una borsa in pelle di un famoso marchio del lusso. Per molti consumatori, l’immagine tipica della contraffazione si concretizza in una borsa di lusso italiana acquistata per 20 euro da un venditore ambulante o in un orologio svizzero imitato venduto a 100 euro. Tuttavia, la realtà è che ogni azienda produttrice risente degli effetti della contraffazione, indipendentemente dal settore. L’olio di oliva, la crema viso, la tuta di un pilota, ma anche la carne e i farmaci. La lotta al falso rappresenta un’enorme sfida per i titolari di diritti di proprietà intellettuale, per le aziende specializzate e per le autorità, a causa della mancanza di trasparenza e di rispetto delle normative da parte dei produttori, in particolare in Cina, che domina il mercato della contraffazione con oltre l’85% della produzione globale.
Vittime della contraffazione non sono solo i consumatori, che possono trovarsi ad acquistare prodotti falsi o pericolosi, ma anche le aziende che vedono perdere fatturato come conseguenza inversamente proporzionale alla mancanza di acquisti di prodotti originali, senza tralasciare il rischio per la salute e la sicurezza pubblica.
Chi inquina paga
C’è un altro aspetto, inoltre, che in pochi ancora si sforzano di considerare: tra le potenziali vittime della contraffazione c’è anche l’ambiente costituzionalmente garantito e al centro dei bilanci di sostenibilità a livello mondiale. Il testo dell’articolo 41 della Costituzione, a seguito delle modifiche apportate dalla riforma costituzionale, recita infatti quanto segue: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Si capisce come le aziende non possano più ignorare, ormai già da qualche anno, il loro impatto ambientale.
Una responsabilizzazione e responsabilità che è stata correttamente applicata a quattro settori della politica ambientale dell’Ue: inquinamento industriale, smaltimento dei rifiuti, gestione delle risorse idriche e uso del suolo. Eppure, vi è un indice di sostenibilità che non è stato contemplato: quello della lotta contro i mercati paralleli dei fake che inquinano e danneggiano l’ecosistema. Il monitoraggio del contraffatto non è infatti preso in considerazione, perché probabilmente non si coglie direttamente quanto sia inquinante, sia al momento della produzione, con materiali altamente dannosi, sia al momento dello smaltimento (in dogana e non).
Prendere avvio dal principio europeo del “chi inquina paga” è utile per asserire che, se “il contraffatto inquina” allora “chi non combatte la contraffazione deve pagare”. Il principio, sulla bocca di tutti gli europeisti convinti, dovrebbe portare a una normativa, attualmente assente, che porti a sostenere le misure adottate per prevenire, ridurre e porre rimedio all’inquinamento causato dalla contraffazione.
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