In cerca dell’anima gemella
Tutti i segreti del marketing strategico: intervista a Nicola Uva, Strategy & Marketing Director di ADP Italia
di Luca Papperini
Diffondere la conoscenza del prodotto, aumentare la buona reputazione del brand, segmentare in digitale, trovare nuovi posizionamenti in un mercato sempre più frammentato. Il lavoro del ‘marketer’ si complica in tempi di ripresa globale. Un po’ stratega, un po’ psicologo, grande esperto delle abitudini di consumo del suo target di riferimento, sa attendere due o tre anni prima di vedere ricompensati i suoi sforzi. Dopo il fallimento della filosofia d’acquisto di tipo ‘push’, l’avvento del marketing strategico ha sancito per sempre la fine di un’era. Oggi fare marketing significa in prima istanza orientare il business, non i gusti dei consumatori. O meglio, crossare in ‘zona Cesarini’ per trovare chi fa gol.
Marketing è rumore, finzione, magia, sogno. È quel punto in cui gli opposti si toccano per dar vita alle più perverse invenzioni della mente. Immaginare il mare è allora un po’ come averlo sotto gli occhi, sentendo il profumo della salsedine e il calore della sabbia sotto i piedi.
Fare marketing significa stimolare quel punto del cervello umano deputato a prendere una decisione rispetto a un’altra.
Di come questa funzione sia cambiata negli anni post crisi e del suo rinnovato peso negli organigrammi aziendali ce ne parla Nicola Uva, Strategy & Marketing Director di ADP Italia.
Perchè marketing strategico?
Scopo del marketing è vendere di più e meglio. Tutto ciò che il marketing si propone di fare deve tradursi in un obiettivo di business misurabile.
Per esempio?
La diffusione del brand e del suo posizionamento. Non è solo importante che il suo nome risuoni con familiarità alle orecchie dei consumatori, ma che sia chiara la sua identità. Deve cioè occupare il suo spazio nel cuore delle persone.
Cosa è cambiato o cosa sta cambiando?
Quello che sta cambiando negli ultimi anni sono gli interlocutori. Se fino a ieri nel b2b si pensava a indirizzare verso il proprio obiettivo i decision maker, oggi è opportuno rivolgersi a una platea più ampia. Questo perché in tempo di trasformazione digitale anche gli opinion maker contano. Raccontarsi a un pubblico più ampio agevola il processo di conoscenza del brand e, indirettamente, quello di vendita.
Motivo per cui avete deciso di investire in comunicazione radiofonica…
Esattamente. Abbiamo scelto Radio 24 per indirizzare la nostra campagna marketing a un pubblico ‘business oriented’, un pubbico più ampio rispetto a quello che raggiungiamo con la comunicazione tradizionale del Web e della carta stampata. Su quest’ultimo aspetto b2b e b2c seguono le stesse regole.
I nostri clienti infatti non sono solo i direttori del personale, ma tutti coloro che in qualche modo possono influenzare le loro scelte.
A dirsi così sembra semplice, ma quali complicazioni nasconde?
Questa strategia richiede rigore nella misura dei risultati e continuità di investimento per dare i suoi frutti.
Ogni anno misuriamo la brand awarness su un campione di aziende non clienti. Dalla prima survey risalente a tre anni fa – in cui il nostro brand era conosciuto dal 34% delle aziende intervistate – oggi siamo al 54%. Un’ ottima risposta del pubblico se pensiamo che ADP è un acronimo che conta centinaia di risultati sul Web.
La strategia basata su una diffusione multicanale del brand richiede impegno e investimenti: quanto è aumentato il budget a disposizione?
Il budget è rimasto pressoché invariato. È cambiata invece la sua allocazione. Fino a 3 anni fa il budget dedicato alle attività di marketing era distribuito per il 90% sugli eventi e per il restante 10 in attività di comunicazione tradizionale. Attualmente invece una quota rilevante del budget è sulla comunicazione: radio, Web, riviste di settore.
Quale il motivo che vi ha spinto a fare questa scelta in un periodo di profonda flessione per le attività di comunicazione tradizionale?
Sta cambiando la modalità di generazione delle opportunità di vendita. Il marketing deve essere in grado di generare le migliori condizioni affinché l’area commerciale finalizzi la vendita. Deve preparare il terreno.
Se fino a ieri la strategia era rincorrere i prospect – che nella maggior parte dei casi si rivelavano disinteressati alla proposta – oggi vorremmo che siano i prospect stessi a intercettare le nostre offerte e a chiamarci. Su quest’ultimo aspetto il b2b e il b2c trovano un punto di contatto che si chiama Web. Sia il consumatore di beni, sia il direttore risorse umane in cerca di un servizio migliore per l’azienda agiscono secondo gli stessi criteri di selezione. Criteri basati sulla ricerca on line e che escono dal nostro diretto controllo. Almeno in una prima fase.
E dopo?
Nella fase successiva entrano in gioco gli strumenti tradizionalmente in mano ai commerciali per la vendita: chiamate, appuntamenti, gare… Si tratta però di una fase successiva, per la quale è necessario aver già preparato il campo. Se non si è presenti nella fase precedente, le opportunità generate avranno scarso valore commerciale. In questo modo difficilmente si riuscirà a chiudere una trattativa.
Come sono cambiati gli strumenti tecnologici in mano agli uffici marketing?
Il Web ha stravolto le regole del gioco. In media investiamo oltre 50.000 euro all’anno per le attività di Search Engine Optimization (SEO) volte a migliorare il posizionamento delle pagine Web restituite dai motori di ricerca in corrispondenza delle parole chiave ritenute più strategiche.
Importanti investimenti sono stati fatti sul Search Engine Marketing (SEM), ossia quell’insieme di attività di web marketing che hanno l’obiettivo di incrementare la visibilità e la rintracciabilità di un sito attraverso i motori di ricerca. Le attività di SEM si focalizzano su alcuni fattori di posizionamento ‘off-site’, cioè su elementi esterni al sito ma che su di esso hanno un effetto diretto.
Quali i KPI standard adottati per la misura delle attività di marketing?
Ad esempio la misura del ranking su Google, il miglioramento della brand awarness, il numero di opportunità commerciali generate, le pubblicazioni non a pagamento sulle riviste. Questi indicatori non sono però rappresentativi per il business, e spesso confinano il marketing nella sua ‘torre eburnea’.
Per questo motivo abbiamo deciso di introdurre KPI diversi. Indicatori quantitativi ad elevato livello di dettaglio con una forte vocazione al business. Ad esempio: quale il fatturato generato per ogni opportunità, quali i costi del marketing in relazione ai costi di vendita e quali i costi sul totale dei ricavi. Lo spostamento del focus è oggi sulla qualità delle opportunità generate, non sulla quantità. Procedendo in questo modo si scongiura il rischio di dissociare le attività di marketing da quelle di business.
Come si misura la forza di un brand se nella percezione che ne abbiamo fanno parte anche elementi emotivi impalpabili?
Se fino a pochi anni fa si utilizzavano metodologie come i focus group per ottenere un’analisi qualitativa sulla percezione di un brand, oggi questi strumenti stanno scomparendo a vantaggio di un’analisi basata sul Web che offre una panoramica completa sulle identità digitali dei consumatori, sulle loro abitudini di acquisto e sui loro gusti. Tutto è tracciato. Tali analisi consentono di intercettare il profilo ideale del consumatore con un livello di dettaglio che riduce quasi a zero i margini di errore.
Quale azienda oggi è più innovativa sotto l’aspetto della profilazione del suo cliente ideale?
Ferrero e P&G hanno storicamente fatto scuola in questo ambito. Con l’avvento della trasformazione digitale invece ritengo Amazon la più audace. Il grande cambiamento che stanno affrontando i forti brand consumer è la gestione dell’offerta rivolta a nicchie di consumatori. Una sorta di ‘gourmet’ che ha come protagonisti – ad esempio – il cioccolato, le automobili, gli shampoo o i telefoni cellulari (vedi Apple).
Protagonisti di questo trend sono tipicamente i marchi che puntano tutto sulla forza travolgente della customer experience.