Big data e Analytics, il dato miniera d’oro per l’impresa
In questa tavola rotonda diversi fornitori si confrontano sulla realtà italiana nell’utilizzo di soluzioni di Big data Analytics e tracciano la strada affinché queste tematiche diventino patrimonio delle nostre aziende.
di Luca Bastia
Secondo alcuni studi recenti, gli Analytics sono la principale priorità di investimento per quasi la metà dei CIO italiani e le competenze per la gestione dei Big data sono ritenute la sfida organizzativa più rilevante per la trasformazione digitale delle imprese secondo il 22% dei responsabili dei sistemi informativi. Ma questo, secondo i pareri dei fornitori che Sistemi&Impresa ha raccolto a settembre in una tavola rotonda, accade per lo più nell’ambito finance e telco, molto meno nel manifatturiero. In generale, comunque, c’è sicuramente curiosità e interesse su queste tematiche.
Accorpare le informazioni provenienti da clienti, reparti e filiera consente di migliorare le performance: avere la corretta visibilità su queste informazioni può trasformare i processi di approvvigionamento, l’utilizzo delle risorse e il livello dei servizi. Un buon uso degli Analytics consente di identificare gli insights più rapidamente e facilmente da tutti i tipi di dati, come i Big data, facilitando la presa di decisione in ottica business. Gli strumenti di business Analytics, inoltre, possono sfruttare al meglio i Big data provenienti da applicazioni di IoT: per monitorare ogni singolo dispositivo connesso; per controllare le tendenze sui consumi; per ottimizzare i processi di approvvigionamento e di utilizzo; per migliorare il design o la qualità del prodotto stesso (integrando i feedback nel processo di ricerca e sviluppo e di produzione), per ottimizzare gli interventi di manutenzione programmata.
Nella tavola rotonda i relatori hanno fornito una loro visone del mercato italiano, dell’interesse delle aziende verso i Big data e gli Analytics, di come oggi li utilizzano e di quali sono gli elementi affinché se ne diffonda l’utilizzo, con un particolare riferimento al comparto manifatturiero.
Big data e Analytics in Italia
Secondo Umberto Lambiase di Bizmatica c’è una forte focalizzazione del mercato sul Reporting/ Analytics e in seconda battuta verso i Big data. “La realtà italiana è differente da quella anglosassone, in Italia non c’è un mercato maturo, c’è però una forte attenzione e curiosità, si cercano strumenti di supporto e di aiuto per i ruoli decisionali, ma questi devono essere di facile utilizzo e implementazione”. Lambiase sottolinea anche che la tematica del Data Discovery è più vicina al business e che “le aziende dispongono di un’enorme mole di dati, ma non conoscono ancora il valore del dato, non sanno come monetizzarlo e trasformarlo in qualche cosa che diventi valore per l’azienda”.
“Pensando agli Analytics nel comparto manifatturiero”, interviene Stefano Maio di Oracle, “mi viene in mente la qualità, il customer service, il miglioramento nel rendimento di produzione e l’accelerazione nei tempi di lancio del prodotto”.
Durante il recente Oracle Open World, ha riferito Maio, i numeri presentati parlavano di un aumento degli investimenti verso gli Analitycs e di uno spostamento dei budget dall’IT alle line of business, ovviamente in un contesto mondiale. “Ma tornando in Italia si nota che c’è la percezione che introdurre soluzioni di Big data Analytics richieda grandi investimenti e inoltre c’è anche poca comprensione su cosa significhi realmente. Analitycs vuol dire dare un significato ai dati; cioè, grazie agli algoritmi, fare analisi di tipo diagnostico, descrittivo, predittivo. È necessario comprendere che tipo di processo si vuole migliorare. Anche la data monetization è spesso un concetto poco avvicinabile all’imprenditore medio italiano”.
“In realtà”, aggiunge Maio, “tutto questo è molto accedibile da parte di tutti anche grazie al cloud che permette di operare anche sul miglioramento del singolo processo senza implementare una specifica infrastruttura. Il cloud bypassa lo scoglio tecnologico e gli investimenti correlati e diverse aziende se ne stanno rendendo conto”.
“La manifattura italiana per la prima volta affronta temi legati all’Industry 4.0, si interessa al cloud e le line of business hanno voci di budget IT”, questo il quadro che ci presenta Alessandro Passoni di SAP. “Certo la Germania è molto più avanti: sono quattro anni che il Governo tedesco ha approntato un programma Industry 4.0, mentre il nostro Governo l’ha presentato solo due mesi fa”.
Secondo Passoni i Big data e l’open source sono partiti come una “moda”, ma oggi sono una realtà concreta, utile per strutture flessibili. “Sono anche a basso costo e consentono alle Pmi di utilizzare soluzioni nate per fare cose strutturate e cose non strutturate, inoltre si collegano alle Analytics in cloud ed essendo ready-to-go le line of business possono agire in autonomia rispetto all’IT. In ambito manifatturiero nelle grandi, ma anche nelle medie e piccole imprese vediamo l’utilizzo dei Big data in ambito R&D dove vengono aggregati i dati dello sviluppo con le analisi post vendita per migliorare il prodotto”.
La prospettiva di Gianni Pelizzo di Techedge è quella del system integrator che opera in aziende medio grandi, come tiene a sottolineare: “In ambito manifatturiero la mia esperienza vede la Spagna più avanti nell’IoT e la Germania che ha già progetti in ottica Industry 4.0, mentre in Italia siamo a metà dei due mondi; si guarda all’utilizzo dell’IoT e si sta partendo con la digitalizzazione nella manifattura discreta. I progetti di reporting e di Analytics non sono più a latere degli altri progetti, ma sono in coda a progetti tematici, collegati”.
“Gli Analytics diventano poi la base per evolvere verso il predictive, ma il passaggio alla manutenzione predittiva avverrà gradualmente e secondo un percorso che parte dalla connessione dei sistemi di campo, la raccolta e la costruzione dei data lake e infine l’applicazione su questi grossi volumi di dati algoritmi predittivi; la mancanza, soprattutto in ambito manifatturiero, di queste basi dati storiche, non permette a oggi l’applicazione di logiche predittive. Nella realtà italiana, inoltre, il mondo IoT e il machine- to-machine sta generando grossi volumi di dati e il passo dagli Analytics ai Big data è breve”.
“Dal mio punto di vista ci sono due tipi di aziende: quelle mature che hanno consapevolezza dei Big data e Analytics e hanno la cultura del dato (si tratta di banche, operatori di Tlc e le grandi imprese del manufacturing), mentre sempre nel manufacturing aziende di dimensioni ridotte mostrano una maggiore inerzia”, sostiene Francesco Rainini di SAS.
“Quando si parla di Big data, molte aziende si concentrano sui propri dati, non considerando il fatto che i Big data esistono anche fuori dall’azienda e se ne potrebbe estrarre un grande valore”, aggiunge Rainini. “Per molte imprese, poi, Analytics significa reporting, dashboarding e, in qualche caso, near real time, cioè l’essere pronti a reagire a un evento. L’avere una sorta di radar che permette di guardare avanti è importante. Non è complicata la tecnologia, ma non è semplice far capire agli interlocutori il concetto di comprensione di un fenomeno. Faccio un esempio: un’azienda che ho incontrato di recente mi diceva che su una particolare linea di business andavano molto bene e voleva capire il perché, questo sembra provocatorio, ma in realtà è un atteggiamento illuminato, perché capendo i motivi si può innescare un ciclo virtuoso verso le altre linee di business e capitalizzare il vantaggio competitivo che si ha. Purtroppo mi è capitato una sola volta. In produzione troviamo questa cultura principalmente nell’ambito della qualità”.
“È più facile trovare la cultura analitica in laboratorio grazie a ricercatori che utilizzano diversi strumenti in modo abbastanza libero e creativo che comprendono i fenomeni ed esplorano i dati, ma poi trasferire la conoscenza acquisita in produzione non è un passaggio consolidato”, afferma Rainini di SAS.
“Una cosa importante che sta avvenendo sul mercato è la digital transformation che ha portato nuovi luoghi comuni o acronimi (Big data, cloud, …), ma cosa sono i Big data? Non c’è una comunanza di linguaggio. Ho sentito parlare di Big data come cluster Hadoop, sento parlare di dati strutturati e non strutturati, di dato interno all’azienda e di dato esterno”, dice Claudio Bastia di Informatica. “Secondo me la cosa certa è che il dato è l’elemento su cui l’azienda inizia a ruotare, ma bisogna fare chiarezza su cosa sono i Big data e su come si possono trasformare in informazioni.
Soffermandoci sul manifatturiero è indubbio che è un segmento che sta cercando di evolvere, ma chi ha pochi soldi da investire guarda a processi ad alto ritorno. Oggi i progetti di Big data sono per lo più delle sperimentazioni”.
Andrea Bergamo di Estilos, società che opera prevalentemente sui processi di front end, cambia prospettiva e afferma: “Quando mettiamo i piedi fuori dal perimetro aziendale ci sembra di camminare in una palude, quella dei dati”.
“In un articolo di un importante quotidiano nazionale dello scorso ottobre si affermava che nel 2020 il mercato dei Big data rappresenterà l’8% del Pil europeo, definendo questo fenomeno il ‘nuovo petrolio’”, racconta Bergamo. “Questo fa comprendere l’importanza dei dati, ma si tratta soprattutto di dati che non sono dentro al perimetro aziendale. E se valgono così tanto, le aziende saranno disposte ad acquistarli perché essendo esterni non li possiedono. Ma focalizzandoci sul contesto italiano, probabilmente a questo 8% l’Italia contribuirà con poco più di zero. Sono un po’ drastico, ma bisogna essere pratici che è quello che chiedono i clienti”. Estilos, che opera raccogliendo dati di vendita, ha fatto negli ultimi anni una cinquantina di progetti CRM multicanale “e ci rendiamo conto che la cultura dei dati fuori dal perimetro aziendale è quasi inesistente. Le aziende, però, stanno maturando un senso di bisogno”.
Bisogna operare in maniera pragmatica e agendo in maniera corretta sui dati si ottengono buoni risultati, secondo Bergamo: “Bisogna essere molto pratici, bisogna capire quali dati si hanno a disposizione, sapere che non si tratta di un progetto predittivo di Analytics e che un progetto predittivo non si fa con un singolo algoritmo, ma con una catena di algoritmi. Se si conosce bene il mercato si agisce bene anche nella filiera produttiva potendo relazionare le scorte con il forecast di produzione e soprattutto con il forecast di vendita. In Italia siamo bravi a produrre ma non bravi a vendere”, sentenzia Bergamo.
Importante, secondo il manager, è la capacità di analizzare non soltanto il dato strutturato, ma anche quello destrutturato e la correlazione tra i due dati. “Siamo andati a prendere il manuale di polizia penale e giudiziaria e l’abbiamo tradotto in indagine all’interno dei dati, per avere un approccio investigativo, facendo le simmetrie tra ciò che significa intercettare, su come seguire le tracce ecc.”, spiega Bergamo. “Voglio soffermarmi sulle dinamiche che abbiamo intercettato nel nostro lavoro”, interviene Massimiliano Calogero di Kpmg Advisory. “Prima di tutto la grandissima differenza culturale tra le aziende che hanno nei propri processi produttivi la produzione del dato (banche, assicurazioni e operatori telefonici) e le aziende manifatturiere dove il dato è un semi lavorato, uno ‘scarto di produzione’”.
Calogero ritiene che ci sia una grande differenziazione nell’approccio al cliente secondo la tipologia di azienda: “La grande banca approccia il problema comprando hardware e software, dal punto di vista IT; compra, mette da parte e poi comincia a pensare ai processi di governance e, solo successivamente, a cosa può farsene, mentre l’azienda manifatturiera, in cui i dati non sono il core business, ha tanta curiosità, ma anche tanta diffidenza sul valore che può portare questo tipo di soluzione, anche perché nella maggioranza dei casi crede che lo sforzo, in termini umani ed economici, sia rilevante, fatto che però si può confutare facilmente”.
Calogero sostiene che ci si trova di fronte anche a una scarsità di cultura tecnica nelle imprese: “Per esempio abbiamo appena terminato un proof of concept per un’azienda e abbiamo verificato che a fronte di un certo numero di soggetti che avevano relazioni di business con questa azienda ce n’erano altrettanti non controllati e che quindi non rientravano ‘nel radar’ della matrice di rischio e che potevano essere potenzialmente frodatori. Ma la risposta dell’azienda è stata di estrema ‘prudenza’: ‘Aspettate un attimo, state toccando delle funzioni aziendali di cui state dicendo che fino a ora non hanno fatto bene il loro lavoro’. Per cui ci è stato richiesto di temporeggiare, di allungare i tempi di progetto per consentire di sistemare le cose. Spesso sistemi che mettono in evidenza modalità di processi non totalmente corretti sono visti come potenzialmente dannosi agli equilibri all’interno delle aziende”.
“Riguardo specificamente al manifatturiero, la nostra esperienza ci dice che la paura di cambiare ottica, di cambiare visione impedisce di fare il salto di qualità per utilizzare il patrimonio di dati”, aggiunge il manager di Kpmg. Ma c’è chi questo salto lo vuole fare, “per esempio il manager di una società che produce caldaie mi ha detto: ‘Noi vogliamo fare un progetto di Big data Analytics perché non vogliamo più vendere caldaie, ma un servizio; ti porto a casa 21 gradi, estate e inverno. In Italia però spesso siamo ancora ancorati al prodotto, a quello che si sa fare oggi, pochi hanno una visione del futuro”.
“La mia esperienza è molto simile a quella di Calogero”, interviene Roberto Gemma di Altea UP. “Ci muoviamo su differenti mercati e a prescindere da tutti i tool di analisi che i vendor offrono, c’è ancora poca consapevolezza del reale obiettivo da raggiungere. Nel manufacturing ad esempio gli ‘illuminati’, cioè coloro che vogliono analizzare i Big data per cambiare la percezione di ciò che stanno facendo avendo consapevolezza dell’obiettivo che vogliono raggiungere, sono ancora pochi. Per esempio un nostro cliente che produce impianti non vuole più solo vendere impianti, ma vendere un servizio e utilizzare i Big data come parte del servizio stesso. Non è un caso isolato ma è annoverabile tra i primi”.
“Stiamo osservando una differenziazione tra i vari mercati”, prosegue Gemma, “una tendenza maggiore ad analizzare il dato la troviamo nelle aziende B2C (storicamente abbiamo molti clienti in ambito fashion e retail di alto livello) e in questo ambiente c’è molta attenzione al dato relativo alla sentiment analysis che serve a gestire meglio un prodotto o a inventarne uno nuovo, capendo quali sono le abitudini del consumatore, anche nel punto vendita. Invece, il più delle volte, nel manufacturing troviamo da parte delle aziende la difficoltà a capire cosa vogliono tirare fuori dal dato, ci vuole un’elevata consapevolezza di cosa si può ricavare dalla mole di dati che sono a loro disposizione”.
“Io porto l’esperienza di una start up in ambito Big data, quale siamo noi”, dice Enrico Grisello di Doolytic. “È circa un anno che facciamo progetti, soprattutto all’estero, e secondo noi chi ha veramente bisogno di queste tecnologie e ci chiama sono prevalentemente telco, banche, assicurazioni, energy & utility e qualche caso di retail”.
“Nel manufacturing”, aggiunge, “soprattutto se par liamo di media azienda, c’è molto interesse in particolare a fare qualche ‘esercizio’ a livello di ricerca e sviluppo; per esempio per raccogliere dati di sensori messi su macchine di produzione, ma poi scendendo nel concreto la maggior parte delle aziende già con le tecnologie che utilizza può soddisfare le attuali esigenze del mercato”.
Grisello si dice convinto che l’esplosione dell’IoT porterà l’azienda manifatturiera ad affrontare la problematica della gestione dei Big data e quella del real time: catturare il dato e agire di conseguenza. “In questo momento si parla molto di Big data perché c’è un gap tecnologico tra il volume di dati che si è creato e le tecnologie disponibili per trattarli. Tra qualche anno non ci sarà più distinzione tra prodotti che fanno Analytics e Discovery su volumi di dati normali e Big data: i prodotti saranno scalabili fino ai Big data”.
Secondo Grisello, l’adozione da parte di soggetti che non ne hanno le capacità o la struttura per accedere a queste soluzioni passa attraverso la semplificazione. “Siamo noi vendor che dobbiamo cercare di semplificare al massimo l’esperienza per i clienti finali, che saranno gli utenti di business, non tanto i data scientist, figure che saranno presenti solamente in qualche azienda altamente strutturata”.
Big data e Analytics oggi e domani
Gli interessi da parte delle aziende attualmente riguardano la maintenance, la predictive maintenance e l’IoT, secondo il parere di Calogero. “Quest’ultimo elemento sta emergendo poiché le imprese hanno l’intenzione di proporre qualche servizio, cioè aumentare la capacità di soddisfare le esigenze del proprio cliente”.
“C’è anche molto interesse, ma poche applicazioni, sul tema della customer journey”, aggiunge; “molti ne parlano, soprattutto le telco. Tante società sono interessate agli aspetti infrastrutturali per avere una visione più chiara su cosa devono fare per affrontare un progetto.
“Ci sono delle buone soluzioni”, sostiene Bergamo. “Il problema è applicarle nelle aziende; c’è un problema di complessità, non è come entrare nell’ERP o nel sito web portando soluzioni di datawarehose e poi fare delle analisi. Per esempio per un’azienda cliente che opera nell’ambito del consumer goods stiamo costruendo una soluzione di customer journey molto sofisticata. Siamo partiti dal presupposto che quando si parla di Big data si possono catturare le transazioni, ma anche le conversazioni; con il cliente-consumatore bisogna fare del business e con il consumatore non cliente bisogna parlare”.
“Il processo che le aziende stanno cercando di fare è capire l’influenza del dato esterno (per esempio da Facebook) verso il dato interno”, interviene Bastia. “Si va a correlare dati ancora più destrutturati come le immagini e bisogna riuscire a creare delle correlazioni; qui è la sfida di chi ha delle piattaforme di BI e Analytics che si appoggiano su un dato preparato. Mentre il Big data rappresenta un ambiente libero, senza regole, e possiamo ricavarne tanto”.
“Se Big data deve essere, Big data sia, nel senso che l’azienda è spesso divisa a silos e che è inutile parlare di dati esterni, non c’è neppure una gestione correlata all’interno”, sostiene Rainini. “Bisognerebbe partire dai piani strategici aziendali per arrivare ai business plan e poi verso i piani di produzione, ma l’azienda tipica non funziona così, è tutta scollegata”. Secondo Rainini bisogna favorire la cultura all’interno delle aziende e del loro management: “Uno dei paradigmi che bisogna iniziare a portare è che l’azienda è un organismo correlato nelle sue varie parti. Bisogna guardare i dati in azienda in maniera trasversale per tirarne fuori del valore”.
“Dobbiamo sfruttare meglio i dati interni e poi utilizzare anche quelli esterni” aggiunge Rainini. “Quando le aziende mi chiedono cosa possono fare con tutti i loro dati, per prima cosa chiedo ‘cosa vuoi fare?’ e uso spesso la metafora del navigatore. La prima cosa che va fatta utilizzando il navigatore, uno strumento che è effettivamente tra i più utili che abbiamo a disposizione, è impostare la destinazione, se non si definisce la meta, difficilmente potrà suggerire la strada migliore”.
“Mi voglio ricollegare a questo ragionamento”, dice Maio. “Innanzitutto cosa viene fatto oggi con i Big data: nel manifatturiero c’è qualche imprenditore illuminato che addirittura cambia l’oggetto sociale, ovvero passa dal produrre un pezzo al vendere un dato che è riferito a quel pezzo. I casi sono sotto gli occhi di tutti: quello più clamoroso è di quella società che produce attrezzi per palestre che ora vende il dato del comportamento del fisico di una persona, per esempio a un’azienda farmaceutica o a una catena alberghiera”.
“Per rispondere al quesito ‘come si possono sfruttare meglio i Big data’, all’azienda medio grande suggerirei di aprire un tavolo multidisciplinare per accelerare la crescita culturale nell’impresa, in quanto ciascuno è portatore di interessi e conoscenze differenti (esperto di settore, system integrator, vendor, caso di eccellenza, …)”, afferma Maio. “Una volta identificati gli obiettivi si può partire subito con una sperimentazione in cloud che non necessita di infrastrutture interne”.
“Il nostro compito poi”, insiste Maio, “è rendere il tutto semplice, nell’implementazione e nell’uso, ma soprattutto deve essere facile da imparare”.
“Effettivamente”, interviene Passoni, “bisognerebbe insegnare alle imprese che l’ecosistema azienda produce tanti dati e che per fare qualche cosa di più bisogna sperimentare, anche sbagliare, fino a che si trova la strada giusta”.
“Sono d’accordo con questo approccio”, sostiene Gemma, “anche noi organizziamo degli eventi insieme al vendor di riferimento e ai possibili clienti con un approccio del tipo ‘design thinking’ per comprendere quali informazioni possono essere necessarie per proporre un’offerta adeguata alle esigenze delle imprese”.
“Le aziende manifatturiere che oggi stanno approcciando i Big data, sono società che fino a ieri facevano ferro e truciolo, e ora diventano aziende di software”, afferma Pelizzo. “Soprattutto in Germania abbiamo dei clienti che stanno avvicinandosi all’Industry 4.0; per esempio produttori di compressori che non vendono più il prodotto fisico, ma l’aria compressa, aziende che stanno vendendo la fruizione di ciò che fa la macchina piuttosto che la macchina stessa. Sono le aziende che ci chiedono di implementare logiche tipicamente di sviluppo software o di test e rilascio del software. Loro rilasciano macchine che sono sempre connesse con il produttore e la logica è: installo il compressore e nel tempo posso rilasciare applicazioni, funzionalità e anche nuove release di funzionamento del compressore”.
“Una delle cose che sta accadendo nelle aziende industriali”, prosegue Pelizzo, “è la progressiva transizione verso la fornitura dei servizi attraverso software. In Italia una famosa azienda bresciana di macchinari, valvole e pompe ha creato da un anno una società per fare applicazioni di Big data e Information technology da abbinare ai suoi prodotti”. “C’è un aspetto che è stato sottolineato dagli interventi precedenti che condivido appieno”, evidenzia Lambiase: “la resistenza al cambiamento, che è facile trovare soprattutto in determinati contesti, in particolare quello manifatturiero italiano, per natura culturale. Inoltre c’è un aspetto altrettanto interessante che riguarda alcuni settori specifici dove troviamo maggiore sensibilità ai vantaggi (economici, produttivi, di miglioramento della catena organizzativa interna) che si possono ottenere da un corretto uso dei dati: in queste situazioni la resistenza al cambiamento viene meno e c’è una maggiore condivisione con una pluralità di interlocutori; ciò porta un valore quasi immediato all’azienda”.
“Per esempio”, aggiunge Lambiase, “nel demand planning anche volendosi avvicinare a modelli predittivi per il calcolo dei fabbisogni di produzione piuttosto che per l’efficientamento degli stock a magazzino o ancora per l’eventuale miglioramento del processo di acquisto (in realtà è tutto collegato), l’avere degli strumenti semplici da implementare riesce, in maniera veloce, a soddisfare le esigenze pratiche dell’imprenditore o del direttore di produzione, il ritorno dell’investimento è quasi immediato. Da qui poi il passo è breve per arrivare alle analisi predittive, all’uso dei Big data e all’IoT”.
“C’è un’importante opportunità nel settore manifatturiero sfruttando IoT e Big data per trasformarsi da aziende che producono ad aziende di servizi o comunque a inglobare anche quella parte”, dice Grisello. “Per esempio un’azienda nostra cliente che produce batterie industriali sta passando dal concetto di fornire la singola batteria e relativa manutenzione a vendere una certa potenza elettrica totale e garantire che quella capacità il cliente l’avrà sempre e non avrà disservizi: le aziende devono imboccare questa strada facendosi affiancare da vendor e partner che già hanno esperienze specifiche, altrimenti rischiano di ‘farsi del male’”.
Per chiudere prendiamo a prestito una un’affermazione di Calogero che riassume il senso del dibattito: “Bisogna tutti fare un passo indietro, arrivare a proporre un modello multidisciplinare e l’utente deve mettere sul tavolo la volontà di sperimentare, mentre, dal punto di vista delle tecnologie, bisogna proporre approcci semplici e mostrare i benefici a breve termine”.