Il piccolo non è più bello
L’impatto delle conseguenze della crisi energetica e delle sanzioni contro la Russia per la sua invasione dell’Ucraina sarà particolarmente pesante per l’Italia. Rischiamo di entrare in una spirale negativa in cui vari fattori – alcuni solo italiani – agiranno sinergicamente accelerando la recessione. La totalità dei Paesi dell’Europa occidentale ne risentirà molto meno e questo per vari tipi di motivi. Quasi tutti hanno minore dipendenza dal gas russo e alcuni addirittura stanno notevolmente guadagnando nell’attuale situazione (Olanda e Norvegia). Solo la Germania si trova in una posizione simile alla nostra e, non a caso, ha cercato di opporsi alle sanzioni, ma le condizioni finanziarie di Berlino permetteranno ai tedeschi di superare più facilmente la crisi.
C’è, comunque, un elemento negativo di scenario molto importante che riguarda solo noi: l’Italia era già da tempo in una situazione critica e, per di più, in continuo peggioramento rispetto agli altri Paesi, perché dal 1995 al 2015 il nostro Prodotto interno lordo (Pil) reale era, infatti, già calato del 3%, mentre negli Stati confrontabili con noi (Spagna, Francia, Germania) era cresciuto mediamente del 25% (dati Eurostat). Una differenza, dunque, di quasi il 30%. La situazione è ancora peggiore se vista dal punto di vista del Pil reale pro capite (Pil Ppa, cioè a prezzi costanti, indicatore anche del potere di acquisto): nel 2019 eravamo scesi al 49esimo posto mondiale (dati IndexMundi).
Sicuramente la crisi pandemica e quella energetica hanno ulteriormente aumentato questo divario. Il saldo tra perdita di Pil del 2020 e ripresa del 2021 è ancora negativo per l’Italia e, comunque, peggiore degli altri Paesi comparabili, probabilmente a causa dei più lunghi lockdown e delle maggiori restrizioni. Anche l’impatto del maggior costo dell’energia e della mancanza di materie prime provenienti dalla Russia sarà maggiore per noi, in quanto altre nazioni hanno maggiori possibilità di produzione autonoma di energia (nucleare, produzione propria di gas, rigassificatori, rinnovabili, ecc.) e perché l’Italia ha una più ampia percentuale del Pil generata dall’industria manifatturiera, la cui produzione dipende da disponibilità e costo del gas, dell’energia elettrica e delle materie prime.
Il fatto più critico è che quanto detto si innesta sulla nostra già precaria situazione connessa a un Pil pro capite troppo basso e senza crescita da decenni. Questa situazione ha comportato anche la stagnazione dei salari medi a livelli imbarazzanti rispetto al resto dell’Europa. Questi sono addirittura regrediti del 3% dal 1990 al 2020, mentre in tutti gli altri Paesi sono aumentati notevolmente. Anche in quelli a minor tasso di sviluppo, come Francia e Germania, sono cresciuti di più del 30% (dati Ocse). Giusto per fare un esempio, l’Irlanda nel 2019 aveva un salario medio mensile per i lavoratori con meno di 30 anni pari a 2.958 euro, contro i nostri 2.101 euro (41% in più; dati Eurostat). Questo significa che in Italia un’ulteriore larga fetta della popolazione scenderà sotto la soglia della povertà, situazione che nel 2022 interesserà l’11% della popolazione (previsioni Istat).
Il falso mito del costo del lavoro elevato
Come già argomentato, la causa maggiore di tale criticità è costituita dalla incapacità, oramai cronica, di far crescere il nostro Pil, con un degrado iniziato già 30 anni fa. Una sola considerazione per tutte: l’Italia ha un costo medio orario del lavoro pari a 29 euro, mentre in Francia e Germania è più di 37 euro; eppure i nostri imprenditori ci hanno detto, per anni, che il problema dell’Italia era… il costo del lavoro! Se non riusciamo a competere con Paesi che hanno una spesa di questo tipo del 28% superiore rispetto a noi e non riusciamo ad aumentare i nostri volumi, significa semplicemente due cose: il basso costo del lavoro non è sufficiente per competere con chi produce lo stesso livello di prodotti-servizi (si consideri che già in Europa ci sono Paesi con costo orario di soli 7-10 euro; dati 2021 dell’Eurostat) e i nostri sono di basso valore. Il fatto che Germania e Francia siano riusciti ad aumentare costantemente il loro Pil pro capite, nonostante un costo del lavoro superiore del 28% rispetto all’Italia, significa, ovviamente, che i loro prodotti-servizi hanno un maggior valore riconosciuto dal mercato. Se fossimo in grado di averli dello stesso livello di valore percepito dal mercato potremmo permetterci di aumentare del 28% almeno anche i nostri salari. Dobbiamo, quindi, ammettere che il valore di ciò che produciamo è troppo basso, mentre continuiamo a magnificare il Made in Italy (brand che, ovviamente, esiste, ma non riusciamo a sfruttare in modo adeguato). Occorre prendere atto che il valore aggiunto dei nostri lavoratori è relativamente basso rispetto a quello dei Paesi concorrenti e ciò si riflette anche nei ridotti salari. Questo è il frutto di un insieme di fattori: la mancanza di innovazione e di aumento del valore nei prodotti-servizi; le basse competenze della nostra forza lavoro; e, soprattutto, la mancata evoluzione del nostro ecosistema economico. Dal punto di vista strategico questo è il frutto di una cultura industriale sbagliata, nata nel XX secolo in un contesto completamente diverso e che tuttora permane. In Italia si è, così, rimasti per lungo tempo nella convinzione che l’aumento della competitività si ottiene aumentando l’efficienza, riducendo, cioè, continuamente il costo del prodotto-servizio. Non potendo agire sul costo del lavoro – che però è stato inevitabilmente frenato – evitando il più possibile gli aumenti salariali, si è puntato tutto su una maggiore automazione per ridurre i costi produttivi (ora anche attraverso la digitalizzazione), assumendo che questa fosse la priorità strategica. Come ben sappiamo, in mercati insaturi, tipici del periodo dagli Anni 50 agli Anni 80, quando tale cultura si è sviluppata, ci si basava sull’assunto che si può aumentare il Pil e il fatturato delle aziende attraverso l’aumento dei volumi produttivi, potenziando la capacità produttiva (volumi ed efficienza) e competendo sul prezzo. Ma se il mercato è saturo, non esistono spazi per maggiori volumi, se non a scapito di concorrenti, sottraendo loro quote di mercato con l’offerta di prezzi minori (da cui l’importanza della riduzione del costo della produzione, lavoro incluso). Perseguendo tale logica, cioè cercando di aumentare i volumi dei prodotti-servizi già esistenti (come le automobili di segmento medio-basso) ci siamo trovati, ora, a produrre prodotti producibili anche da Paesi con un costo del lavoro molto più basso persino in Europa (per esempio, in Serbia è di soli 10 euro l’ora): una battaglia persa in partenza.L’articolo integrale è pubblicato sul numero di Settembre 2022 di Sistemi&Impresa.
Per informazioni sull’acquisto di copie e abbonamenti scrivi a daniela.bobbiese@este.it (tel. 02.91434400)
Giorgio Merli è Consulente di multinazionali e governi, Docente in università in Italia e all’estero, già Country Leader di IBM Business Consulting Services, CEO di PWCC, Senior VP di Efeso Consulting.
crisi energetica, Guerra Russia Ucraina, italia, pil