Intervista a Aldo Sutter, Presidente Gruppo SutterIl Gruppo Sutter, con oltre 150 anni di storia alle spalle, ha dimostrato di saper vincere importanti battaglie. Del resto, tener testa a colossi come Procter&Gamble o Colgate, non è impresa facile. Se il Gruppo Sutter è ancora sul mercato non può essere un caso. Ci troviamo di fronte a un’azienda che ha saputo scrivere nel corso degli anni una storia imprenditoriale straordinaria: è passata attraverso due guerre, ha vissuto passaggi generazionali, ha lavorato alla diversificazione della produzione in tempi lontani, si è aperta ai mercati internazionali e ha perfettamente coniugato tradizione e innovazione.
Il gruppo, da cinque generazioni, ha sempre avuto alla sua guida i maschio primogenito. E noi che siamo affascinati dalle storie delle aziende che hanno contribuito a costruire la storia del nostro Paese, abbiamo incontrato a Milano Aldo Sutter, ora al timone dell’azienda di famiglia.
Aldo non è cresciuto a ‘pane e azienda’ come molti figli dei nostri imprenditori. Appassionato di aeronautica, aveva iniziato a costruirsi una carriera fuori dall’Italia. Ora lo vediamo in televisione, a spiegare ai consumatori l’innovazione dei prodotti Sutter. In questa intervista ci racconta, partendo da lontano, la storia di un’azienda che ha saputo inventare e reinventarsi.A cura di:Chiara LupiRaccontare 150 anni di storia è complicato. Partiamo dai fatti. Come siete riusciti a rimanere sul mercato
È vero, condensare 150 anni in pochi minuti è complicato. La storia dell’azienda della mia famiglia è lunga e travagliata. Dovessi trovare le motivazioni che le hanno permesso di resistere direi perché ha saputo reinventarsi almeno tre o quattro volte. Partiamo dal 1858, quando in Svizzera la mia famiglia aveva iniziato a produrre aceto di mele diventando in poco tempo leader in tutto il nord Europa. E qui iniziano le prime intuizioni legate alla diversificazione. Perché l’aceto d’estate non si vendeva, non esistevano i frigoriferi e, banalmente, non c’era verdura da condire… È stato così che si è concepito un prodotto dallo scarto della lavorazione dell’aceto, il lucido da scarpe. Questo ha aperto un nuovo mondo ed è stato uno dei primi esempi di destagionalizzazione del business: in inverno nelle strade non asfaltate si sporcavano le scarpe che dovevano essere pulite. D’estate si faceva l’aceto.
La terza generazione ha fatto un passo rilevante, quello dell’internazionalizzazione. Ci racconta?
Molti rappresentanti della nostra azienda abitavano a Genova, dove arrivava la materia prima dal Brasile (la cera veniva estratta dalle palme brasiliane). E fu così che crearono la prima filiale. L’azienda era già presente in Austria e Germania ma l’Italia rappresentava una vera internazionalizzazione, in un’epoca in cui viaggiare non era agevole, attraversare le Alpi in inverno era un’impresa! Questa terza generazione ha capito che c’erano grandi potenzialità nei paesi del mediterraneo e ha fatto un altro cambiamento passando dalla cera per le scarpe alla cera per pavimenti. Dalla cera per pavimenti passare agli altri detergenti per la casa è stata una naturale conseguenza.
Poi, cos’è successo?
Poi c’è stata la generazione di mio padre che si è occupato della sola gestione italiana perché nel frattempo i due fratelli si erano suddivisi il mercato del nord e sud Europa. Mio padre ha fatto un altro grande salto epocale che è stato sopravvivere a congiunture estremamente negative. Ad esempio, deciso il trasferimento nella sede dove siamo ora in provincia di Alessandria perché la sede di Genova era ormai inadeguata, i sindacati imposero di tenere aperti i due stabilimenti con impatti devastanti sui costi. Ma mio padre è sempre riuscito a governare questi eventi…
A quel periodo risale anche la vendita del ramo svizzero alla Unilever…
Negli anni ’70 lo zio di mio padre è morto senza lasciare eredi e la moglie ha venduto l’attività all’Unilever. Nei primi anni ’70 tutti i marchi erano depositati in Svizzera e, nonostante avessimo noi il diritto di prelazione all’acquisto mio padre si è ritrovato senza marchi in un settore come il largo consumo ed ha avuto il doppio dei costi fissi e l’80% del fatturato in meno. Ha resistito due anni, poi ha reinvestito tutto quello che aveva nel business e pian piano è riuscito a ripartire puntando sugli unici due marchi italiani Emulsio e Mangiapolvere. Ha così ripreso le quote di mercato che aveva perso e, nel frattempo, ha gestito la quarta grande rivoluzione sviluppando un nuovo mercato rivolto ai settori professionali: imprese di pulizia, ospedali, alberghi.
L’intuizione per l’affare giusto non è stata l’unica leva…
Infatti. La svolta è arrivata con l’istituzione in Italia, mutuando un progetto già avviato in Svizzera a partire dal 1954, di un centro di formazione per chi si voleva dedicare alle pulizie professionali. Da noi si imparava come ottimizzare i tempi, utilizzare le macchine, come pulire i pavimenti, che prodotti usare, come fare manutenzione. Un business di servizi unico in Europa al quale i clienti si rivolgevano per essere formati. Un centro di formazione per gli utilizzatori che si trasformavano in distributori loro stessi. Ed è stato così che, senza andarli a cercare, l’azienda si è trovata con una rete di distributori in tutta Europa. Il problema erano le lingue, per questo erano state assunte persone con competenze specifiche.
Dall’aceto al lucido da scarpe, dal lucido da scarpe ai prodotti per la pulizia degli ambienti e dagli ambienti domestici agli ambienti professionali. Come si riesce a portare avanti un business quando la competizione è così alta?
Con delle idee, direi. Il centro di formazione è stata un’idea fantastica. Risale ad allora l’invenzione del metodo per la pulizia degli ospedali che tutt’ora viene utilizzato, il Metodo Taski, depositato in Svizzera. Abbiamo insistito sulla parte professionale e sui paesi esteri. Oggi la parte professionale rappresenta il 50% del fatturato e l’anno prossimo supererà la parte tradizionale e di questa parte professionale, più di metà è realizzata fuori dall’Italia. Anche questa è una fortuna. Gli anni ’80 sono stati molto positivi poi all’inizio degli anni ’90 ho iniziato ad affiancare mio padre. Nel giro di sei mesi mi ha dato carta bianca.
Il tema del passaggio generazionale è complicato. Nella vostra azienda c’è sempre stato un uomo solo al comando.
Una logica storica, è sempre stato fatto così: il primo figlio maschio doveva occuparsi dell’azienda. Da noi funzionava perché il primo figlio era sempre maschio! Un destino che ha resistito fino alla mia generazione.
Come ha vissuto questo essere al comando. Si è sentito solo?
È stato abbastanza inaspettato perché frutto di una serie di casualità ma mio padre, fin dal liceo, mi ha sempre detto che dovevo scegliermi la mia strada perché secondo lui la nostra azienda non aveva futuro. Quindi non sono cresciuto a ‘pane e azienda’ come i figli degli altri imprenditori. Ho seguito la mia passione (gli elicotteri e ho studiato ingegneria aeronautica) poi ho iniziato a lavorare in una banca d’investimenti. Successivamente ho seguito un MBA, ho fatto il consulente per la Boston Consulting Group a Parigi perché in Italia non volevo tornare. Così mi sono costruito la mia strada. Quando mio padre mi ha chiesto un parere in merito a un’acquisizione, è stato allora che mi sono riavvicinato all’azienda, ho iniziato a fare analisi e le faccio tutt’ora. La cosa divertente è che non so esattamente da quanto tempo lavoro in Sutter!
Lei si è occupato di finanza, cosa ci può dire di questa crisi finanziaria?
La finanza è utile ma come tutte le cose sono gli eccessi a far male. Mi dà fastidio vedere la fatica che si fa a creare valore nell’industria per poi vedere la facilità con la quale questo valore si distrugge. Sono sempre stato avverso all’indebitamento e non ho mai avuto bisogno della finanza, aziendalmente. Proprio perché mi faceva un po’ paura. Le grandi acquisizioni, i grandi salti in avanti che hanno portato a grandi momenti di gloria mi hanno sempre intimorito: mio nonno diceva che i soldi li perdi con la stessa velocità con cui li fai. Concetto che ha una sua logica perché se fai crescite violente non stai più creando valore nel tuo settore ma stai creando dinamiche diverse.
Con la finanza si è messo al centro il capital gain e non il lavoro…
Ho difficoltà a sintonizzarmi con la finanza perché condivido logiche differenti. Non dico siano sbagliate, sono diverse: la logica della costruzione del valore, della visione a lungo termine, delle preferenze verso valori che testimoniano responsabilità nei confronti delle persone che lavorano con te o che utilizzano i tuoi prodotti. Prendiamo la CSR (Corporate Social Responsibility, ndr), adesso si fa e pare che prima non la facesse nessuno. Non è vero! Qualche guru del marketing ne ha parlato e ora è di moda. Tantissimi imprenditori che ho conosciuto sono ‘responsabili’ da sempre perché fa parte del loro modo di essere e di concepire il lavoro. Bisognerebbe partire dal presupposto che l’impresa non ci appartiene, l’abbiamo ricevuta in prestito dalle generazioni precedenti per consegnarla alle generazioni future.
Lei si sente così?
Di fatto è così e questo contraddistingue un modo di essere. Chiaramente questa non è l’ottica della finanza. Spero di lasciare qualcosa, anche se siamo in un mondo in cui tutto cambia a una velocità notevole. Nessuno sa cosa accadrà. Si naviga un po’ a vista. Ma è la old economy a reggere le sorti dell’economia. Le vecchie fabbriche che producono sostengono il sistema. Ci servono beni fisici. Se Skype ci evita gli spostamenti è vero che se il mondo progredisce, ci sarà sempre più gente a volersi spostare. C’era chi scommetteva nel grande declino dell’aeronautica dopo il disastro delle torri gemelle, in realtà il business si è trasformato. La vendita degli aerei, tranne qualche raro caso, è costantemente aumentata.
Questa capacità di reagire, navigare a vista laddove il mondo cambia credo sia più facile per un’azienda che può contare su un impianto valoriale solido, che si tramanda da generazioni…
In un settore dove i competitor sono molto grandi, forse una scelta più aggressiva in termini di acquisizioni avrebbe potuto premiarci. Le politiche già attuate premiano la nostra dimensione, la nostra azienda oggi va bene, nonostante la crisi. Forse perché reagiamo, ci poniamo nuove domande, ristrutturiamo alcune cose e riprogettiamo in continuazione. Alla fine scopriamo di riuscire a fare le stesse cose a costi inferiori.
Un’azienda che continuamente ripensa se stessa?
Mi viene facile perché fa parte del mio carattere, non mi ritrovo nella routine, mi piace buttar tutto all’aria, per trovare cose nuove e migliori. Internamente la chiamiamo la ‘re-evolution’, una rivoluzione che fa parte dell’evoluzione. E quindi ogni due/tre anni ripensiamo l’organizzazione e ripartiamo, con ruoli nuovi, persone nuove. Un modo per ridare dinamica e motivazione alle persone, per farle pensare in maniera diversa.
Le persone come reagiscono?
Non tutte bene, anche se ormai lo sanno e se lo aspettano, addirittura a volte faccio dei blitz in ufficio e minaccio di buttare via tutto, di resettare il computer oppure chiedo di far finta di essere entrati in Sutter in quel momento e di ripensare tutto da zero. Questo dà vivacità, favorisce la discussione, è un modo per mettere in moto energie. E poi mi fa piacere affidare a persone che non se lo aspettano ruoli differenti, mi piace scommettere sui giovani, affidare a qualcuno di sveglio una posizione a sorpresa. Spesso le persone nella prendono come la sfida della vita e portano risultati straordinari.
Dare fiducia alle persone significa anche valorizzarle e dar loro delle opportunità.
Siamo meno di 200 e facciamo quasi 80 milioni di fatturato. Siamo piccoli ma internamente molto dinamici e questo lo posso dire perché quasi tutte le persone che vanno via, o chiedono di tornare, o mi chiamano rimpiangendo le attività che facevano con noi. E questo mi fa piacere.
E con la resistenza al cambiamento, come la mettiamo?
La resistenza al cambiamento è un tema forte. Dipende da come le cose vengono proposte. Basta dare alle persone obiettivi che siano sufficientemente sfidanti e lasciarli lavorare, non ‘picchiargli in testa’ quando sbagliano. Non è una ricetta complicata.
E l’innovazione tecnologica, che ruolo ha?
Ci sono nuove tecnologie, che consentono di fare le cose in modo nuovo, ma bisogna anche avere il coraggio di cambiare. L’out of the box ha possibilità colossali ma la vera innovazione sta nella testa delle persone. Secondo me bisogna cercare di rendere gli approcci dinamici, distruggere la logica del pensiero. Ecco perché servono i filosofi nelle organizzazioni!
Ci fa un esempio?
Ci siamo chiesti come essere competitivi nel mercato dei lavapavimenti dove strutturalmente non lo siamo perché abbiamo competitor con volumi molto più ampi che sfruttano economie di scala su prodotti banalizzati. Siamo partiti dal contrario. Ci siamo chiesti, cosa vendiamo? Partiamo dal concetto della pulizia. Con il lavapavimenti si vende il 3% di quello che contiene il prodotto. Il resto è acqua. Perché allora vendere cose che non servono, come il contenitore che si può riutilizzare? L’acqua ce l’hanno tutti. Allora perché imballarla e trasportarla inquinando e intasando le strade… Abbiamo preso la parte attiva, messa in un sacchettino di plastica che si scioglie in acqua: trenta volte meno pesante, meno costi, meno imballaggi, meno rifiuti, meno scarti. Abbiamo lanciato il prodotto sul mercato e vediamo cosa succede. Cambiare le abitudini delle persone è complicato, soprattutto per atti d’acquisto di un decimo di secondo e dove ci sono abitudini molto consolidate. Ma costa la metà e lo vendiamo alla metà del prezzo. Il prodotto però va spiegato e alla fine sono io, in pubblicità, a raccontarlo ai consumatori.
Come è stata questa esperienza?
Diciamo che non mi sento molto a mio agio ma era necessario spiegare la logica del prodotto, far capire le motivazioni che dovrebbero spingere a un acquisto differente. L’antitesi insomma della comunicazione pubblicitaria. Ma, anche qui, dobbiamo rompere gli schemi.
Giocare al di fuori di schemi consolidati, questo è per lei fare innovazione?
L’innovazione è un concetto assoluto, non relativo. Innovazione non è fare un nuovo prodotto ma rompere le convinzioni che avevi prima. E contare sul gruppo. Combatto contro gli organigrammi, contro le gerarchie. Disegno un campo da calcio, metto i giocatori e vedo chi passa la palla. Perché ci devono essere le gerarchie? Questo il mio concetto organizzativo, molto spinto sul team.
La gente va allenata a giocare in maniera diversa?
Le faccio un esempio. Pensi alla classica domanda, “a chi chiedo le ferie”? A te stesso…, rispondo io! Il gruppo è un grande controllore. Per ridurre in maniera sensibile le spese della forza vendita abbiamo pubblicato le note spese sulla intranet, ognuno deve postarle e ognuno controlla gli altri. Risultato? Meno 20% di costi in tre mesi. Il controllo sociale ha una potenza straordinaria, molto più delle gerarchie. Abbiamo risparmiato il costo del controllo e ridotto le spese.
Che messaggio si sentirebbe di dare a un suo collega imprenditore?
Le potenzialità sono infinite, bisogna ragionare fuori dagli schemi. Ho una certezza, tra vent’anni quello che ci sarà a scaffale per pulire i pavimenti sarà molto diverso da quello che c’è adesso, di conseguenza qualcuno sarà riuscito fare innovazioni. Allora ci dobbiamo provare anche noi. Il nostro dramma è la burocrazia totalizzante e il sistema quasi persecutorio soprattutto verso le aziende che vanno bene. La tentazione di andare in un altro paese è grande. Tante aziende si spostano e non tornano e questo è un tema attualissimo. Un centinaio di fabbriche si sono spostate negli ultimi tre anni, e alcune hanno scelto paesi come la Svizzera! Ecco, questo tema dovrebbe essere oggetto di maggiore discussione e confronto.