Il futuro dell’industria italiana, il 2019 è un anno cruciale
Il 2019 si è aperto per l’industria italiana con un carico di interrogativi, che travalica la massa d’incertezze che gravano sull’economia internazionale. Infatti, il nostro sistema delle imprese viene da una stagione relativamente più positiva rispetto al passato.
Questa fase è stata caratterizzata da una ripresa che – pur alquanto contenuta nelle sue proporzioni effettive – sembrava rafforzare le attese di stabilizzazione del nostro apparato produttivo. Purtroppo, con l’estate del 2018 questa fase si è chiusa ed è ricominciato un ciclo negativo che probabilmente caratterizzerà tutto il 2019.
Il periodo che abbiamo lasciato alle spalle appare segnato da due tendenze: la prima è legata alla presa d’atto della natura profondamente divaricata e polarizzata del sistema delle imprese, diviso tra un nucleo di aziende dinamiche, in grado di reggere con successo alla concorrenza internazionale, e un’area più vasta in cui coesistono sia imprese in grado di trasformarsi per aggiudicarsi una prospettiva di continuità e altre invece che stenteranno a farcela e a sopravvivere.
Quali conseguenze avrà il rallentamento economico in corso su scala mondiale sulle imprese italiane?
Non è facile abbozzare una risposta alla domanda, intanto perché non sappiamo ipotizzare ancora l’entità del rallentamento e poi perché dipende dai legami che le nostre imprese hanno sviluppato con il mercato mondiale.
Così, per esempio, bisognerà vedere che cosa avverrà quando la perdita di slancio dell’economia cinese si ripercuoterà sulle imprese che hanno consolidato la loro presenza su quel mercato. Ma questa considerazione vale forse ancor di più per quelle nostre aziende che intrattengono rapporti consolidati con il sistema produttivo della Germania, oggi in significativa frenata.
Se le imprese italiane migliori sono quelle che si sono più radicate sui mercati internazionali, è chiaro che ora esse si trovano esposte al loro ripiegamento. Nello stesso tempo, è difficile ipotizzare un miglioramento della situazione per le imprese più orientate al mercato interno, che negli ultimi mesi non ha certo manifestato segni di vivacità.
Il rischio, a questo punto, è che il 2019 possa costituire un anno di ulteriore scrematura per un sistema imprenditoriale che viene ormai da oltre un decennio di difficoltà. Qualche sintomo in questo senso è già riscontrabile.
Nuovo ruolo per le medie imprese
Negli ultimi anni si è profilato un asse del sistema industriale italiano che si disloca lungo la linea Treviso-Verona-Brescia-Milano-Bologna, un asse del Nord che ha però posto ai margini il blocco di Nord-Ovest – quello di Liguria e Piemonte per intenderci – in difficoltà da almeno un ventennio.
In passato, sembrava che per l’economia dell’Italia settentrionale il problema stesse nell’operare questa saldatura, per sanare un divario di crescita piuttosto pronunciato.
Ora però i segnali di raffreddamento della dinamica economica sono ben visibili anche all’interno di quelle che in precedenza erano identificate come le zone forti del Nord (ciò riguarda il Veneto, per esempio, mentre in Emilia-Romagna si avverte un preoccupante calo degli ordinativi e così via). Non è da escludere, quindi, che si determinino nuovi cambiamenti nella geografia dello sviluppo, che d’altronde appare soggetta a un processo di rivolgimento continuo.
È assai probabile, invece, che si confermi il ruolo centrale e di cerniera che all’interno del sistema economico e imprenditoriale rivestono le medie imprese, da 20 anni ormai fulcro del nostro sviluppo industriale. La presenza delle grandi imprese continua infatti a restringersi e tutto lascia prevedere che questo processo proseguirà anche nei prossimi tempi.
Prendiamo il caso di Fiat Chrysler Automobiles (FCA), alle cui sorti sono legate anche quelle della produzione automobilistica nel nostro Paese. Il Salone dell’auto di Detroit, tenutosi a metà gennaio 2019, ha posto in evidenza alcune tendenze generali dell’Automotive: nei prossimi anni è probabile una contrazione del mercato autoveicolistico su scala mondiale; essa avverrà in concomitanza con un cambio di paradigma centrato sulle piattaforme elettriche. Nella fase di passaggio, i modelli dominanti saranno Suv, crossover e pickup, sempre più spesso dotati di propulsione ibrida.
Per l’Italia, ciò indica un’elevata criticità: attualmente la produzione nazionale non contempla né vetture ibride né elettriche. Inoltre FCA ha registrato risultati molto soddisfacenti sul mercato nordamericano grazie ai prodotti dei marchi Jeep e Ram, quelli che garantiscono buoni livelli di redditività al gruppo, al contrario dei marchi italiani che rappresentano una passività, specie sul mercato europeo.
Fino a quando potrà permanere questo dualismo? Con un produttore ‘anfibio’, metà americano e metà europeo, che realizza i suoi profitti con vetture progettate al di là dell’Atlantico?
Nel 2018 in Italia ha prodotto 499mila vetture – se si escludono dal computo i veicoli commerciali – un limite destinato a scendere nel 2019 e troppo ristretto per assicurare un futuro alla nostra industria dell’auto.
Da tempo si parla di una cessione dei marchi continentali a un produttore extra europeo: potrebbe essere questa la condizione per il mantenimento, e magari per la ripresa, della produzione italiana, dal
momento che FCA ha ora una prevalente focalizzazione negli Usa.
Si aggiunga che una sorta di calo continuo dei volumi di autoveicoli potrebbe pregiudicare la consistenza del sistema produttivo italiano, che ne sarebbe seriamente indebolito.
In conclusione, per molti versi il 2019 appare come un anno cruciale per cogliere la direzione di marcia verso cui sta andando la nostra industria, oggi di fronte a un tornante particolarmente delicato.