Per le medie aziende italiane sostenere economicamente la ricerca non è sempre facile. Bisogna partecipare a progetti regionali, nazionale ed europei.La Commisione europea arriva a finanziare anche il 100% del progetto.Intervista a Maurizio Gattiglio, Executive Vice President, presso Prima Electro Spadi Chiara Lupi
Come si porta innovazione in una azienda di produzione? Dobbiamo partire da questa domanda per poi passare all’interrogativo successivo, che deve dare risposte rispetto alle modalità con le quali è possibile finanziare l’innovazione. Al di là delle attività di ricerca che le aziende sviluppano al proprio interno, e che devono sostenere in autonomia, una possibilità concreta per fare un salto di qualità è avvicinarsi ai progetti di ricerca promossi dall’Unione europea. Le istituzioni comunitarie offrono moltissime opportunità alle nostre aziende. La difficoltà di avvicinarsi a un apparato burocratico che appare complesso e distante, le barriere linguistiche, la percezione – errata – che le istituzioni non siano al servizio di chi fa impresa e anche, perché no, una difficoltà atavica nel riporre nelle istituzioni stesse una dose di fiducia, fanno sì che i nostri imprenditori fatichino ad avvicinarsi a progetti di ricerca indi ternazionali. Per cercare di accorciare le distanze abbiamo interpellato Maurizio Gattiglio, Executive Vice President, presso Prima Electro Spa e Chairman di Effra – European Factories of the Future Research Association, l’associazione che promuove in Europa progetti di ricerca per portare innovazione all’interno del contesto manifatturiero. Ci siamo rivolti a Gattiglio per portare alla luce i vantaggi di partecipare a progetti di ricerca europei ed evidenziare le opportunità che le nostre imprese potrebbero cogliere.
Come mai le nostre aziende tengono le distanze dalla ricerca europea?
Le aziende faticano ad approcciarsi alla ricerca europea poiché la percepiscono erroneamente come molto complessa. Anche se la burocrazia, e i linguaggi che porta con sé, non sono sempre semplici da comprendere, e talvolta il meccanismo sembra respingere più che accogliere, in realtà, a parte la barriera linguistica, i meccanismi non sono molto diversi da quelli regionali o nazionali, anzi spesso sono più snelli. Recentemente la ricerca europea è stata paragonata alla fiction Il Trono di Spade: tanti reami, dove garantirsi la sopravvivenza è complicato. Una complessità che spesso le piccole e medie imprese non si sentono di affrontare, ma come detto è una barriera più che altro psicologica.
Un atteggiamento questo che porta con sé molti rischi…
Sì, perché la prima cosa da evidenziare è che oggi il settore manifatturiero è di fronte a un grande cambiamento. La digitalizzazione, Industrie 4.0, fabbrica del futuro… siamo di fronte a cambi di paradigma. Faccio spesso parallelismi con il mondo consumer: pensiamo ai cambiamenti nel mondo dell’automobile: fino a pochi anni fa si scommetteva che i player sarebbero rimasti gli stessi, nessuno avrebbe immaginato che si sarebbero affacciati nuovi protagonisti. Oggi i cambiamenti di business model ci stanno invece portando nuovi attori che stanno scalzando, o sostituendo, o si stanno integrando con i player attuali.
Pensiamo a Tesla, o ad Apple e Google per quel che riguarda la guida autonoma. Ci confrontiamo con un mondo che si sta rivoluzionando: tra qualche anno, magari, nessuno comprerà più l’automobile perché avremo l’auto che desideriamo, dove vogliamo e quando vogliamo a disposizione. Pensiamo alla sharing economy – Airbnb ne è un esempio – si stanno profilando scenari e cambiamenti di business radicali.
Che domanda dovrebbe farsi un’azienda?
Oggi un’impresa deve chiedersi come evolverà nei prossimi anni. E sicuramente non può pensare di sopravvivere facendo quel che ha sempre fatto. Vanno impostati percorsi di innovazione specifici per rimanere competitivi. La Commissione europea ha calcolato che in Europa per ogni punto di Pil speso in ricerca si crea un aumento di tre punti di Pil; estrapolando questo dato sulla singola impresa per ogni euro speso in ricerca il ritorno in fatturato futuro potrà essere tra 10 a 20 volte. Fare innovazione è una necessità.
Chiarito questo, i fondi, come si trovano?
Capito quale innovazione serve per rimanere competitivi, automaticamente si può arrivare a risolvere il problema di come finanziarla. Se pensiamo alle aziende italiane, sottocapitalizzate rispetto ai player europei e mondiali, gli strumenti non sono molti: mezzi propri o il sistema bancario.
Poi c’è la ricerca pubblica e collaborativa con la possibilità di partecipare a progetti regionali, nazionali ed europei. E i progetti europei hanno indubbi vantaggi rispetto ai progetti regionali e nazionali.
Ci spiega?
Innanzitutto hanno il notevole vantaggio di erogare consistenti anticipi. Inoltre le aziende tramite questi progetti possono poi venire in contatto con partner stranieri e aprirsi al mercato europeo trovando future partnership. Perché se la ricerca è collaborativa lo è anche il business.
Condividere dunque anche per amplificare le opportunità…
Esatto. Difficile pensare che una azienda possa essere completamente autonoma sia dal punto di vista della ricerca sia del business. Ha bisogno di crearsi una rete di contatti, una supply chain. Per questo la ricerca europea è una grande possibilità.
È anche complessa, però. E per le aziende piccole l’apparato può essere percepito forse come un po’ respingente…
Vero, ma abbiamo, paradossalmente, una grande risorsa: una disoccupazione giovanile che sfiora il 50% e tra chi non lavora ci sono giovani laureati che hanno studiato all’estero e hanno dimestichezza a muoversi in Europa. Con un budget contenuto, anche una Pmi può portare a bordo un giovane neolaureato con esperienza Erasmus, ad esempio, e iniziare un percorso di apertura verso l’Europa.
Possiamo quantificare il budget necessario?
Con un budget di circa 50mila euro l’anno, che ricopre i costi della risorsa e le spese, le possibilità di ottenere un finanziamento europeo sono alte. Questo vuol dire seguire i gruppi di interesse vicini all’area di attività dell’azienda. Bisogna preparare un progetto e la ricerca viene finanziata dalla Commissione europea al 100%. L’importante è che l’azienda abbia chiaro quello che vuole fare e sappia identificare tematiche di interesse. Bisogna provarci.
Un suggerimento?
Investire in risorse che si dedichino alla ricerca e al relativo fundraising nei programmi Horizon2020 della Commissione europea. Posso fare un esempio con la mia impresa, il gruppo Prima Industrie. Per tanti anni abbiamo partecipato a progetti europei a traino di grandi gruppi. I consulenti ci aiutavano a individuare i progetti giusti e a metterli su carta. Poi abbiamo capito che in Europa bisogna presentarsi con la propria faccia, senza intermediazioni. Così abbiamo iniziato ad avere successo nei progetti europei. Per Prima Industrie è certamente più facile, ma anche le aziende piccole e medie hanno strumenti per accedere a queste risorse, in particolare le Pmi sono avvantaggiate dato che una parte consistente dei fondi è a loro riservato.
Quali i passi da fare?
Lo scoglio è psicologico, c’è paura della burocratizzazione. Ma bisogna riconoscere che è in atto un importante tentativo di semplificazione. Può far paura la dimensione transnazionale, bisogna parlare e scrivere in inglese, ma questo non deve essere un problema in uno scenario nel quale le aziende devono aprirsi al mondo. Il limite è la paura di avventurarsi in un terreno sconosciuto senza avere certezze in merito agli esiti…
Vincere la paura, quindi…
Le associazioni di categoria e i cluster possono essere un tramite efficace per entrare in questo mondo e le start up utilizzano spesso questo veicolo. Superata la barriera dell’accesso poi, dal di dentro, le cose sembrano anche meno complesse. Ho visto molte piccole e medie aziende che hanno fatto innovazione spinta proprio grazie ai progetti europei.
Un suggerimento?
In un mondo in così rapido cambiamento è fondamentale la propensione al rischio imprenditoriale, altrimenti non si fanno passi avanti. Tramite i progetti europei si può osare di più ed essere più innovativi: i rischi che si corrono sono contenuti.
Il fattore tempo, quanto incide?
Dal momento in cui si decide, nel primo anno non ci si devono attendere risultati. Bisogna identificare le tematiche attinenti, crearsi un network, quindi il primo anno, mediamente, può non succedere nulla. I progetti sono generalmente triennali e, a livello comunitario, dal momento in cui si presenta un progetto possono passare circa otto mesi per concludere l’iter valutativo. Poi tutto assume una dimensione più naturale e si crea un network di innovazione che va anche al di là della specifica innovazione industriale. E tutto questo può innescare connessioni che esulano dalla ricerca in sé.
Si parla di Smart manufacturing. Il tema è portare la digitalizzazione nel nostro contesto manifatturiero. Nel territorio sta accadendo?
In Italia siamo indietro: Industry 4.0 è un concetto nato come esigenza delle aziende tedesche che sono dimensionalmente più grandi delle aziende italiane e quindi nasce in un contesto diverso, molto incentrato su efficienza, customizzazione e modelli di impresa distanti dai nostri. Modelli difficilmente assimilabili dalle aziende italiane.
Cosa fare?
Serve una riscrittura, una contestualizzazione. La digitalizzazione avrà un impatto, ma serve un ruolo della politica. Il governo si sta muovendo per creare una strategia 4.0 incentrata sui bisogni italiani. Le aziende italiane sono anche scettiche su queste tematiche perché la digitalizzazione è un progetto lento e costoso e se non si riesce a sviluppare con idee chiare e persone giuste rischia di trasformarsi in un progetto ad altissimo costo con ritorni non visibili immediatamente. C’è scetticismo, noi ci stiamo muovendo a livello europeo per canalizzare al livello giusto queste energie. Siamo in ritardo, ma dovremo contribuire ad accelerare il peso del ruolo pubblico, che deve forzatamente essere importante. Perché le imprese non possono essere lasciate sole.